di GIACOMO FRONZI
Lo scorso 20 ottobre, a Roma, è stato eletto il nuovo presidente della Società Italiana d’Estetica (SIE). Elio Franzini ha passato il testimone a Giovanni Matteucci, la cui ricerca si è mossa sia in relazione ad alcuni temi chiave della tradizione filosofica della disciplina sia lungo percorsi inediti, progressivamente più vicini alla dimensione quotidiana.
Non potrei iniziare questa nostra conversazione, professor Matteucci, senza prima aver ringraziato il prof. Franzini per il grande impegno profuso e averLe fatto le congratulazioni per quest’importante incarico, augurandoLe buon lavoro. E inizierei da qui, dalla difficoltà, oggi, di coordinare importanti società scientifiche, com’è la SIE, anche (e soprattutto) in relazione alla problematicità della vita universitaria italiana. Quale crede che possa essere la funzione di una società scientifica nell’attuale momento storico e politico, ma anche alla luce dei rapidi e profondi cambiamenti del mondo accademico?
Anche io ringrazio sinceramente il prof. Elio Franzini per aver gestito ottimamente, negli ultimi anni, la SIE e mi congratulo con lui per il nuovo incarico di Rettore dell’Università di Milano. È complicato affrontare l’incarico di presidente di questa Società sapendo quanto i miei predecessori, prima il prof. Luigi Russo – recentemente scomparso e al quale va tutta la nostra più affettuosa memoria – e poi il prof. Franzini, hanno fatto in quasi vent’anni per la comunità italiana dell’Estetica. Pertanto, non posso che assumere quest’incarico un po’ intimorito dalla loro eredità, che certo non è di poco conto.
Venendo alla domanda, non c’è dubbio che la situazione dell’università italiana sia complessa. Stiamo vivendo, da diversi decenni ormai, un processo di trasformazione che sembra non volersi concludere. Questo processo è stato, ed è ancora, molto sfidante, proprio perché ci costringe continuamente a riconsiderare e rivalutare il ruolo del nostro mestiere, così come la nostra funzione, sia culturale sia in rapporto alla società nella quale operiamo. Non si tratta affatto di un dato di per sé negativo, se consideriamo positiva la tendenza di una struttura ad aggiornarsi, a modificare i propri contenuti e le proprie forme alla luce delle trasformazioni della società in cui è calata. Semmai il problema è che su questi processi grava un’estrema contraddittorietà. Infatti, per un verso, la riforma dell’università in Italia è stata prevalentemente legata, per molto tempo, alle esigenze di ridurre la spesa pubblica e, per altro verso, vi è stata una sostanziale assenza di un progetto sufficientemente organico e complessivo tale da consentire il mantenimento e la produzione di sapere di base innovativo, ma al contempo capace di valorizzare le parti positive delle nostre tradizioni. Tutto ciò è particolarmente vero per i settori umanistici, al cui interno si collocano la filosofia e l’estetica.
Non c’è dubbio che anche da parte di noi umanisti siano stati compiuti errori, dovuti spesso a una certa passività rispetto ai processi di trasformazione in atto: anziché contribuire al loro governo, abbiamo finito con il subirli. Questo è un dato di fatto negativo, quale che sia l’imputazione, oggettiva o soggettiva, che vogliamo rivolgere a noi o agli altri. Resta un problema serio, perché si tratta di difendere la potenzialità straordinaria di un sapere umanistico che, si badi bene, non è soltanto un sapere del passato o un sapere che conserva una tradizione, ma si configura anche come quella dimensione di analisi e interpretazione dei significati e dei sensi, delle prassi, dei costumi, delle azioni e delle realtà attuali che è indispensabile per progettare il futuro, anche dal punto di vista scientifico-tecnologico. Nelle grandi realtà universitarie internazionali il sapere umanistico è sempre più spesso chiamato a collaborare con il sapere tecnologico e con quello scientifico, proprio perché può fornire una visione critica generale che altrimenti rischia di sfuggire. Da questo punto di vista, sarebbe importante che anche l’università italiana non mortificasse queste capacità, cercando di ricondurle forzosamente a forme e standard calibrati su altre modalità di conoscenza. L’estetica, in tale quadro, è solo un tassello che, tuttavia, ha delle grandi potenzialità, perché è un sapere che interseca diversi ambiti, da quelli concettuali a quelli pragmatici e pratici, in un’epoca in cui l’estetico è diventato denominatore comune della globalizzazione.
Stante questa situazione, le società di settore come la SIE svolgono una funzione preziosa, perché diventano i luoghi in cui si contribuisce a definire le regole del gioco: mettere in giusta evidenza le peculiarità di un sapere può servire, da un lato, al legislatore a individuare norme più efficaci e, dall’altro lato, a definire meglio le modalità di metabolizzazione e applicazione delle novità che via via emergono. Le società di settore sono, dunque, un anello di congiunzione estremamente importante e, non a caso, interloquiscono, talvolta con giusto piglio dialettico, con il CUN, con l’ANVUR, nel momento in cui, ad esempio, occorre assumere decisioni rispetto alla delicata e complessa questione della valutazione della ricerca. A ciò si aggiunge un’altra funzione decisiva, quella di presidiare la tenuta della disciplina a livello nazionale e, quindi, individuare aree, zone, settori o corsi di laurea che possono beneficiare meglio, o diversamente, della nostra disciplina. Non si tratta, ovviamente, di avere una funzione per così dire “lobbystica”, quanto, invece, di fungere da interfaccia critica verso l’esterno e verso l’interno, verso gli interlocutori attivi nel mondo dell’università e nei confronti della comunità scientifica d’appartenenza, che va sollecitata attraverso un libero e franco confronto a un costante miglioramento.
Durante la Sua intensa attività di ricerca, si è confrontato con alcune delle principali figure del Novecento filosofico, oltre che con correnti di pensiero, in particolare riconducibili alla tradizione tedesca e anglosassone, che hanno strutturato la riflessione occidentale del XIX e XX secolo. Rispetto anche agli sviluppi dell’estetica e tenendo conto del giudizio calviniano secondo il quale un classico si definisce tale perché non smette mai di dire quel che ha da dire, quale, tra gli autori che Lei ha approfondito, crede possa essere considerato più attuale?
Dinanzi a domande come questa si è sempre in imbarazzo. Quando ci si occupa per diverso tempo di un autore, si tende a diventare in qualche modo il suo avvocato difensore e a promuovere quell’autore quasi che fosse il più importante della storia del pensiero. Una caratteristica della mia ricerca, inoltre, è stata quella di inseguire i problemi più che le scuole, e ciò mi ha indotto a volgermi a tradizioni di pensiero e a filosofi molto diversi tra loro. Essendomi occupato (e occupandomi ancora) di strutture dell’esperienza, in un senso latamente fenomenologico, mi è capitato di incrociare grammatiche speculative, soprattutto nel Novecento, che hanno variamente affrontato alcuni temi da me trattati. E appunto inseguendo i problemi fatalmente accade che, a un certo punto, ci si trova a operare delle scelte, che vengono fatte sulla base di quanto si avverte un autore o un testo più vicino rispetto ad altri in riferimento a un problema magari molto specifico. Non necessariamente si tratta sempre di grandi autori. Ci sono figure che non hanno avuto risonanza e che, probabilmente, non l’avranno mai, ma che proprio per via della loro posizione marginale, aiutano a penetrare meglio alcuni problemi perché ne offrono una peculiare veduta di scorcio.
Tra gli autori veramente importanti di cui mi sono occupato, richiamerei comunque filosofi come Dilthey, Cassirer, Adorno, Dewey o anche Wollheim. Di questi, guardando al dibattito filosofico attuale, sarei portato a dire che sono due le figure che suscitano interesse generale anche nei dibattiti attuali. Una di esse è Dewey. Negli ultimi decenni c’è stato un certo ritorno al pragmatismo in ambito angloamericano, prima, e a livello mondiale, poi. Oggi, in particolare, alla luce di una realtà che vede i processi estetici non più confinati soltanto nel perimetro dell’arte, la prospettiva deweyana diventa senza dubbio cruciale, anche perché nata in dialogo con il darwinismo, quindi in un certo senso in sintonia con l’attuale recupero di tematiche bioevoluzionistiche e antropologiche.
L’altro autore che può sicuramente parlare ancora alla contemporaneità è Adorno, il quale, naturalmente, non viene scoperto oggi, ma che tuttavia oggi viene riscoperto, non soltanto in senso filologico, com’è giusto che sia, ma anche in senso teoretico. Smaltita la sbornia ideologica che l’aveva costretto entro certe letture manualistiche, Adorno si sta rivelando, a mio parere, un autore in grado di aiutare a interpretare la contemporaneità ben oltre quella visione pessimistica che gli si attribuisce. Nel suo caso, certo non si può parlare propriamente di una posizione filosofica ottimistica, ma credo che essa fornisca strumenti cruciali per elaborare in maniera critica e prospetticamente utile la realtà che ci circonda, non da ultimo (anche se non esclusivamente) quella estetica. Non è un caso che la parabola speculativa di questo autore trovi il suo compimento nell’estetico.
Vorrei soffermarmi proprio su Theodor W. Adorno, autore a Lei caro e al quale ha dedicato molti studi. Adorno è senza dubbio una delle figure più emblematiche del panorama culturale europeo tra (e dopo) le due grandi guerre. Un intellettuale che ha contribuito in modo decisivo allo sviluppo di quel filone filosofico-sociologico che va sotto il nome di “teoria critica della società”. Nei suoi scritti si fondono costantemente elementi diversificati che riflettono i numerosi interessi che Adorno ha coltivato, primi tra tutti quelli filosofici, sociologici e musicologici. Nell’attuale panorama filosofico internazionale, scorge in qualche autore un approccio, in linea con quello adorniano, capace di intrecciare direttrici diverse in un unico sguardo prospettico sulla realtà?
Credo di no, innanzitutto perché le forme che la filosofia e il pensiero hanno assunto in personaggi come Adorno sono figlie di un’epoca in cui si poteva ancora ambire a fornire una visione di sintesi, d’insieme di una serie di questioni. Ciò che è senz’altro paradigmatica in Adorno è quindi semmai l’indicazione nella direzione della multidisciplinarità e dello sforzo che va fatto nel tenere insieme ambiti differenti, ma senza poter più confidare nel tentativo di tracciare sinossi generali.
Si tratta di un’indicazione preziosa in ogni caso. La filosofia non è un sapere da esercitare esclusivamente nel chiuso del proprio studio, ma, se essa ha un senso (e deve recuperarlo sempre di più), deve esercitarsi in relazione al fenomeno vivente, alla realtà concreta. La filosofia deve essere aperta e in dialogo con altri saperi, colti nelle loro forme più aggiornate. A tal riguardo, è interessante constatare come questi ultimi, oggi più che mai, esigano e reclamino un intervento critico, analitico-concettuale e quindi filosofico. Basti pensare al paradigma della “mente” all’interno delle nuove scienze cognitive, e a quanto esso sia gravido di implicazioni nella descrizione dell’esperienza estetica, questione al centro delle mie ricerche più recenti. Direi anzi, in generale, che tutto ciò è legato al fatto che stiamo vivendo una fase storica caratterizzata da un processo di ridefinizione di molti paradigmi del sapere, come conseguenza di (o quanto meno in relazione a) quel che accade nella nostra realtà effettiva. Le novità che sono intervenute sul piano economico, sociale e tecnologico sono così tante e di tale portata da aver modificato radicalmente il nostro sistema di vita e a ciò non può che seguire un doveroso aggiornamento dei paradigmi. Adorno, rispetto a un discorso di questo tipo, è un modello magistrale, per via della sua ininterrotta volontà di mettere a nudo i limiti dei modelli ereditati, ma anche di individuarne tutte le possibilità e le potenzialità.
Ancora a proposito di Adorno, recentemente Lei ha curato un volume che raccoglie tutti i suoi interventi sul jazz, tema tra quelli rispetto ai quali il Francofortese è stato particolarmente attaccato, il più delle volte a ragione. Sono tante le voci critiche che si sono levate contro la lettura adorniana del jazz. Ad esempio, secondo Lee B. Brown, non si può ridurre l’analisi del jazz, come fa Adorno, alla sola componente ritmica, non considerando affatto le qualità espressive di questo genere musicale. La sua interpretazione, caratterizzata da un forte eurocentrismo, spingerebbe Adorno a valutare e giudicare la musica jazz in esclusivo rapporto con gli sviluppi della musica occidentale, trascurando molti altri aspetti. Qual è il Suo punto di vista a riguardo?
Anche rispetto al jazz, credo sia utile liberare Adorno dai suoi interpreti, affrancandolo da quei cliché che sono utili forse per chi vuole archiviarlo ma che lo sono di meno per cogliere fino in fondo la forza e l’energia di quel pensiero. Proprio lavorando al libro a cui ha fatto riferimento, che è anche l’unica raccolta mondiale di tutti e solo i testi che Adorno ha scritto sul jazz – peraltro, si tratta di un confronto che è durato vent’anni –, sono emersi aspetti per me molto interessanti.
Intanto, va precisato che a dispetto delle apparenze Adorno non applica uno schema precostituito al jazz, ma svolge un’analisi materiale estremamente scrupolosa e attenta del fenomeno. Il jazz non è affatto ridotto alla sola dimensione ritmica, ma viene letto nel contesto di una profonda analisi della materialità del suono. Un altro aspetto interessante che emerge è la critica al mito della naturalità, una critica estremamente significativa perché rivelativa del punto di vista di Adorno, il quale si impegna a svolgere un’analitica materiale dell’estetico che, come tale, è dunque priva di ogni pre-giudizio in senso ideologico.
Tuttavia, è vero che l’esito a cui Adorno perviene è una liquidazione del jazz, se vogliamo, anche brutale. Ma, con la stessa onestà, occorre rilevare come a essere rifiutato sia specificamente un genere che replica se stesso all’infinito. Infatti, qualora emergessero elementi di promozione di quella liberazione del materiale (non delle forme) che è la base del concetto estetico di Adorno anche ciò che si presenta come jazz riuscirebbe a svolgere adornianamente un’importante funzione emancipatoria.
Adorno vuole mettere in rilievo come sia facile per il jazz, nel nome di una riduzione di se stesso alla naturalità della materia sonora, dimentica la storicità del materiale musicale e, quindi, non cogliere che ciò che si spaccia per materia naturale – elemento a cui è legata anche la ricerca sulle sue origini africane – è una costruzione ideologica che ne impedisce lo sviluppo storico-critico. Al fondo, è questo il pensiero di Adorno e la mia tesi interpretativa è che esso possa essere applicato a tutto il jazz, anche a quello che lui non ha ascoltato.
Il jazz – che io amo, che ho sempre ascoltato e, pur malamente, suonato – potrà compiere questa liberazione quando smetterà di atteggiarsi, appunto, a jazz e diventerà musica, incontrando quella dimensione della “cosa stessa” a cui guarda tenacemente Adorno e che è la sola che ci consente di sfiorare almeno l’alterità. L’alterità, che in Adorno coincide con l’estetico, si lambisce nel momento in cui la si sperimenta nel suo sfuggire alla nostra presa. Se jazz vuol dire principio di catalogazione di una serie di forme musicali, già di per sé assume le sembianze di qualcosa che depotenzia questa carica eversiva e utopica dell’estetico. Solo uscendo costantemente dalla sua “etichetta” il jazz – che a quel punto non è più jazz ma è diventato, dialetticamente, musica – lo si può pienamente accogliere anche in una prospettiva di teoria critica.
Così si spiega con chiarezza il fatto che Adorno adduca come esempi quelli del jazz più commerciale, che poi è quanto a cui tende – e lo dico un po’ provocatoriamente – anche un Keith Jarrett che gigioneggia con uno standard popolare. Nel momento in cui c’è una riduzione alla standardizzazione palatabile, che mostra una complicazione improvvisativa fine a se stessa – che, quindi, non si configura come sviluppo del materiale, ma come ritorno a una materia “data” come se fosse naturale, con il conseguente svilimento della sua stessa complessità –, allora si ripropone quel genere che Adorno tanto stigmatizza. Il punto è questo. Si tratta di una questione che, in fondo, tormenta qualunque musicista degno di questo nome: quello che sto facendo è esibizione di un tour de force, è un lavoro da circo, oppure serve al brano musicale per diventare tale? Quest’interrogativo se lo pone l’esecutore di musica classica, che può essere uno straordinario virtuoso tuttavia incapace di rendere quel brano, e se lo deve porre anche il musicista jazz.
In assenza di tutto ciò, l’effetto che si avrà sarà esattamente quello del pop, vale a dire una “ripetizione, con scarse variazioni, di”. Questo ci dice Adorno. Certo, non lo dice come vorremmo sentircelo dire, ma teniamo sempre a mente anche che nella sua riflessione tutta l’analisi della musica pop e jazz è sempre soltanto un corno di una critica che è duplice. Se leggiamo con attenzione alcune pagine adorniane, a partire dal saggio del ’38 (Il carattere di feticcio in musica e il regresso dell’ascolto), ci accorgiamo che il suo sguardo polemico è sempre, in qualche modo, strabico: è contemporaneamente critica di queste forme e critica delle forme di elitarismo culturaloide. Non è un caso che opera suprema di Mozart per lui fosse il Flauto magico, che è un’opera popolare, nella quale però la popolarità, pur non avendo certo contribuito a orientare la musica verso la successiva e futura sperimentazione più esasperata, ha prodotto una rottura anche radicale delle forme della tradizione. Questo esempio ci deve far capire che la posizione di Adorno non è quella di un elitarismo astratto e da qui dobbiamo partire anche per leggere la sua critica al jazz: risponde alla costante volontà di realizzare un rovesciamento anti-ideologico.
Negli ultimi anni, la Sua riflessione, anche in profonda sintonia con le nuove evoluzioni dell’estetica, che ha allargato il proprio raggio d’azione fino a diventare una delle discipline teoriche meglio sintonizzate con la realtà contemporanea e con le forme attraverso cui la sensibilità si esprime nel tempo presente, ha affrontato il fenomeno “moda”. In particolare con il suo recente volume, dedicato all’Estetica della moda, Lei si è posto un doppio obiettivo: colmare la lacuna che vede i filosofi e gli estetologi storicamente disattenti a questo fenomeno e, allo stesso tempo, contribuire a rendere più chiari i compiti della riflessione estetica al giorno d’oggi. Cosa potrebbe dirci a questo proposito?
Anche nello studio e nell’analisi del fenomeno moda, a dire il vero, ho trovato conforto in Adorno. Vede, ci sono questioni che vanno affrontate e pensate seriamente, il che significa che non possiamo usare di un filosofo solo quello che consideriamo più in sintonia con la nostra prospettiva e scartare tutto ciò che lo è di meno o non lo è affatto. Perciò bisogna prendere sul serio Adorno anche quando dice che l’arte deve correre del tutto il rischio di compromettersi con la mercificazione, diventando “merce assoluta”. Descrivendo questo quadro, egli sta descrivendo la nostra realtà.
Se abbiamo una riserva di esteticità ancora plausibile, ce l’abbiamo nel nostro mondo e nelle sue forme, che sono quelle della mercificazione. Occorre allora valutare se che quello che sembra un meccanismo di pura alienazione, come il fenomeno moda, possa diventare un principio o quanto meno una sollecitazione di emancipazione. A tal riguardo si provi a partire dal fatto che il mondo della moda attesta, innanzitutto, la necessità della definizione, attraverso l’estetico, della propria identità personale. Questo significa cercare di capire come la moda sia un mondo complesso, articolato, intrecciato profondamente con dinamiche sociali, psicologiche, identitarie. Non possiamo, peraltro, pensare che tutti coloro che seguono le mode – e siamo tutti a farlo, se è vero, com’è vero, che anche la moda della non moda è una moda – siano degli allocchi. Anzi. Se andiamo a studiare il mondo produttivo della moda scopriamo che si rivolge a consumatori iper-riflessivi o iper-critici. Non stiamo parlando di stupidità che va per le strade, ma di comportamenti che sono allo stesso tempo aggreganti e gregari, in una dialettica che non va rifiutata ma criticamente analizzata. È vero, può infastidire la gregarietà di certi comportamenti, ma ciò non esclude che possano essere anche aggreganti e che, quindi, possano essere portatori di un’istanza critica, almeno germinale, che attende di essere sviluppata.
Dunque, quello che dovremmo fare, anche quando trattiamo filosoficamente un fenomeno come quello della moda, non è commisurarlo a una cornice ideale nella quale tutto è al posto che vorremmo che fosse, ma cercare di individuare gli spunti di potenzialità critica che eventualmente vi si annidano. Questo vuol dire enucleare in forme talvolta inedite, confliggenti con la tradizione moderna, l’estetico, che si dispiega nella misura in cui incide direttamente e profondamente nella nostra quotidianità, quali che ne siano i modi, in un’epoca, com’è la nostra, nella quale la realtà è estetizzata.
In definitiva, l’idea non è quella di cercare in questi fenomeni di esteticità diffusa il bene o il paradiso, ma quegli elementi che possano essere riscattati dalla loro passività e analizzati nel loro essere potenzialmente promotori di stili di vita. Se noi abbiamo avuto nel Novecento un’idea di stile di vita da costruire questa ci è stata mediata dall’estetica e dall’estetico, non nelle forme dell’arte ma in quelle dei prodotti di consumo. Un processo, ovviamente, che tenacemente deve essere letto sempre in doppia luce, come qualcosa di negativo e deprimente ma anche come qualcosa di costruttivo e critico. Il compito diventa quello di attrezzare una descrizione dell’estetico a partire da qui, come campo esperienziale interazionale sgravato fenomenologicamente da determinazioni storico-culturali derivanti da schemi interpretativi ereditati, com’è il caso della struttura dell’estetico che vincola quest’ultimo ai miti del “soggetto geniale”, della “fruizione distaccata”, del “contenuto emotivo” e dell’“oggetto artistico”.
Una delle caratteristiche principali della nostra contemporaneità, quindi, è il grande accento posto, nella vita quotidiana e nella dimensione pubblica, all’aspetto con il quale ci presentiamo agli occhi di chi ci guarda. L’imperativo che sembra ricorrere è quello di piacere a tutti i costi, esseri considerati belli, curati, quasi come se ciò fosse preliminare a una successiva attestazione di qualità interiori. Ma porre in primo piano il livello estetico nella relazione intersoggettiva, ammettendo poi implicitamente che esso possa condurre a un secondo livello “più intellettuale”, significa ripercorrere un percorso che rilancia il rapporto tra estetica ed etica, tra bellezza e bontà?
All’indomani della strage al Bataclan, il giornalista di “France Bleu” Antoine Leiris, che in quella strage ha perso la moglie Hélène, ha rilasciato un’intervista particolarmente toccante, nella quale definisce gli attentatori come «gente cieca, violenta che preferisce le scorciatoie al cammino più complesso della riflessione, della cultura. Gente che si rifiuta di vedere il mondo come è: magnifico». In quelle stesse righe, Leiris dichiara di voler trasmettere al proprio figlio Melvil, che allora aveva un anno e mezzo, l’idea di tenere sempre gli occhi aperti sulla cultura, sui libri, sulla musica, sull’arte e su tutto quello che fa vedere il mondo come un prisma, cioè all’opposto di come lo vedono i terroristi. Per me, queste parole dicono, tra le altre cose, che la vera contestazione, il punto di frontiera e di difesa rispetto alla barbarie di un distorto integralismo etico è l’estetico, sono gli occhi del figlio spalancati sulla bellezza del mondo.
Con questo, non voglio dire che la bellezza ci renda magicamente liberi, ma intendo sottolineare il fatto che la capacità di gustare nel contingente l’effimero (e la moda è anche questo) può essere l’antidoto migliore nei confronti di un’idea sbagliata di eticità che, invece, nelle forme più deteriori si fonda su cosiddetti valori assoluti. A mio parere questa è una provocazione inaggirabile che l’estetizzazione consegna alla nostra coscienza filosofica.
Soprattutto nel tempo presente, ci occorrono criteri di orientamento, nel breve e nel medio termine, che devono essere improntati a un senso di partecipazione, di comunicazione, di aggregazione e di condivisione. Siamo sempre al lavoro per costruire un nuovo senso comune, quel senso comune che l’estetico ci offre proprio (e anche) nelle forme pur spesso alienanti dell’esteticità diffusa. Senza di ciò, rischieremo di non avere strumenti efficaci, se non quello della pura contrapposizione ideologica. Ma quest’ultima, come puro scontro fine a se stesso tra assolutismi ideologici, è proprio quella via non estetica che sembra occupare molto le cronache politiche nel nostro Paese e che ci dovrebbe invece invitare a un maggiore uso critico dell’estetico, allo scopo di lenire qualche asprezza di troppo, di ridimensionare certi integralismi etici, o strumentalmente etici, che risultano persino ancor più fastidiosi quando non hanno neppure basi compiutamente ideologiche. Le forme più alte di pensiero proiettato nel futuro sono state sempre non sterilmente utopiche nella misura in cui hanno saputo utilizzare la bussola della pienezza estetica della realizzazione creativa dell’essere umano.
L’ideologia, in fondo, si combatte con le idee, con la critica, quindi anche con la filosofia. Alcune recenti forme di integralismo etico-viscerale andrebbero invece forse combattute con le loro stesse armi, quindi con la pancia, senza però disporre del potere di diffusione mediatica su cui quelle forme possono contare. Una via d’uscita da questo apparente vicolo cieco, come dicevo, può essere rintracciata nell’estetico. Sono convinto che le pratiche estetiche possano aiutare quanto meno a creare comunità in cui forse può emergere qualcosa di positivo anche in un orizzonte più ampio e generale.
Negli ultimi tempi, nel nostro Paese, sembra che stia tornando d’attualità un certo dibattito relativo all’utilità o inutilità di alcuni percorsi di studio. Quello filosofico è tradizionalmente, ahinoi, uno di quelli che di solito vengono tirati in ballo rispetto a questa discussione, e sappiamo anche in quale delle due colonne viene inserito. Intanto, le nostre università continuano a formare giovani studiosi che, però, solo al di là dei confini nazionali riescono a dimostrare di poter essere annoverati tra le eccellenze italiane. Rispetto a questo stato di cose, la Sua esperienza accademica La porta a essere ottimista o pessimista rispetto a una sostanziale tenuta degli studi umanistici in Italia, in una fase storica che li vede pericolosamente messi sotto scacco?
Rispetto alle nostre attuali condizioni, non credo che si tratti di proclamarsi in astratto ottimisti o pessimisti, ma di trovare le maniere per essere, o tornare a essere, efficaci. Se c’è spazio per l’ottimismo, questo è dunque quello gramsciano della volontà, semmai. L’invito che farei ai miei colleghi di settore – sia a quelli che già lavorano nel mondo accademico, sia soprattutto a quelli che si stanno preparando a entrarvi – è di tenere sempre in debita considerazione che non c’è una soglia al di qua della quale il nostro sapere sarebbe definitivamente al riparo, e che dunque è vano invocare in astratto il rispetto per la propria purezza. Messa in questi termini, la situazione non è di scacco, ma di sfida, e dobbiamo giocare con intelligenza la partita. La funzione critica, che è cifra del sapere umanistico, si esercita in spazi che vanno conquistati, che non sono mai stati regalati. Così si può portare gli interlocutori su un terreno costruttivo che, convengo con Lei, al momento appare desolatamente poco frequentato.
(12 febbraio 2019)