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Estetica della moda. Una nuova proposta teorica

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di GIACOMO FRONZI

La moda è senza dubbio uno dei più rilevanti fenomeni culturali, economici e sociali della modernità. Analizzata da prospettive teoriche molto diverse, tuttavia essa non ha ricevuto dalla filosofia un’attenzione pari a quella ricevuta da altre discipline. All’interno del panorama filosofico, poi, l’estetica – che più di altri approcci dovrebbe intrattenere con la moda un rapporto privilegiato – pare aver trascurato questo fenomeno. Il recente volume Estetica della moda (Bruno Mondadori 2017) scritto da Giovanni Matteucci, con contributi di Stefano Marino e Gioia Laura Iannilli, ha proprio l’obiettivo di colmare questo vuoto teorico, fungendo da autentico apripista per qualsiasi successiva trattazione filosofica di questo tema.

Possiamo dire che Estetica della moda di Giovanni Matteucci ha un carattere inaugurale, giacché si tratta del primo libro che viene pubblicato con questo titolo. Ma non è soltanto una questione di titolo, ovviamente, ma di contenuti. La relazione tra Estetica, intesa come disciplina filosofica che si occupa delle forme della sensibilità e delle sue innumerevoli espressioni, e Moda, intesa come fenomeno e complesso di pratiche che ha a che fare in modo immediato con la visione e la visibilità, sembra apparire intuitivamente costitutiva. Partendo dal presupposto che la “moda” ricade nel perimetro dell’“estetico” (anzi, per come si legge nelle pagine scritte da Iannilli, a certe condizioni possono essere considerati sinonimi), ci accorgiamo subito che a questa evidenza non è corrisposta un’adeguata attenzione da parte dei filosofi (se non in modo episodico, per come emerge dall’attenta ricostruzione di Marino) e da chi opera nel campo teorico dell’Estetica. Impegnato da alcuni anni nell’analisi filosofica ed estetologica del fenomeno “moda”, Matteucci, con quest’ultimo lavoro, si pone un doppio obiettivo: superare una lacuna e contribuire a rendere più chiari i compiti della riflessione estetica al giorno d’oggi.

Cerchiamo ora di ripercorrere l’itinerario tracciato da questo volume, che è diviso in due parti: la prima (Per un’estetica della moda) è scritta da Matteucci, mentre la seconda (intitolata Itinerari) contiene i contributi di Stefano Marino (Filosofie della moda: una ricostruzione storico-interpretativa) e Gioia Laura Iannilli (La moda come estetica del quotidiano). Partiamo, dunque, dalla Parte prima.

La premessa dalla quale muove l’Autore è che mentre la moda è stata ed è oggetto di costante attenzione da parte di numerose discipline (sociologia, semiotica, scienze economiche, teoria dell’arte e della letteratura, ecc.) i cui contributi, nel loro complesso, possono essere inseriti nei cosiddetti Fashion Studies, il suo rapporto con la filosofia è stato rapsodico, sebbene per nulla irrilevante. È come se la filosofia avesse nel tempo maturato quella che Karen Hanson, richiamato nel testo, ha definito una “paura per la moda”, legata al fatto che tradizionalmente l’attività speculativa ha privilegiato le strutture stabili rispetto a quelle instabili, le invarianti rispetto alle variabili, la solidità rispetto al mutamento. Ancora più eclatante è la sostanziale assenza della moda nell’ambito dell’estetica, la quale, come scrive Matteucci, è come se scontasse un peccato d’origine: «essa nasce […] come “disciplina filosofica” a partire da un gesto molto radicale, ossia dall’esclusione della dimensione dell’interesse pratico dalla determinazione del piacere ritenuto propriamente estetico» (p. 3). Nel corso del tempo, sono stati soprattutto scrittori, prima, e sociologi, poi, a interessarsi alla moda, cosicché di “estetica della moda” si è finito col non occuparsene mai, come se si trattasse di un fenomeno da tenere rigorosamente lontano dal perimetro dell’estetica filosofica. Questo status quo contraddice vistosamente un’evidenza e cioè che la moda, molto più di altri fenomeni, è capace di plasmare il gusto contemporaneo, in un’epoca caratterizzata dall’esteticità diffusa e dall’estetizzazione della realtà. Occuparsi filosoficamente della moda significa, allora, gettare una luce quanto più possibile chiarificatrice su qualcosa che, nel XXI secolo, contribuisce a comprendere meglio la condizione attuale della realtà e della condizione umana.

Come suggerisce Matteucci, la formula “estetica della moda” può essere letta in due modi diversi: come indicazione dell’analisi dei concetti e delle loro implicazioni (anche non concettuali) che riguarda la moda, privilegiando il piano dell’esteticità oppure come indagine sulle questioni che la moda pone da un punto di vista estetico e nella prospettiva di una riqualificazione dell’estetico. Tanto è rilevante la questione che l’Autore lascia intravedere la possibilità che la moda possa far emergere una nozione di estetico tale da costringere la riflessione estetica a mettere in discussione alcuni dei suoi capisaldi, tra cui il cosiddetto “sistema delle belle arti”. Un primo argomento che conduce a un ripensamento (o, quanto meno, a una rimodulazione) dell’estetico risiede nel fatto che la moda, privilegiando l’uso sulla contemplazione, rovescia la piramide, spostando l’asse dell’estetico dall’idea alla pratica. Già questa sintetica osservazione chiarisce la portata della sfida che all’estetica filosofica è lanciata dalla moda, la quale è sì un fenomeno economico, sociale, psicologico, semiotico e antropologico, ma anche e soprattutto estetico. Da qui l’urgenza di un compito: impostare un discorso estetico sulla moda, così da penetrare con strumenti adeguati un intrico di processi che, come scrive Matteucci, quasi monopolizza l’attuale condizione umana.

L’argomentazione dell’Autore si incarica di individuare e approfondire cinque ambiti problematici su cui il fenomeno moda incide e che rendono chiaro come esso sia un fenomeno sostanzialmente e fondamentalmente estetico. Il primo ambito problematico è quello culturale, a partire dal quale l’estetico viene inteso come pratica quotidiana. Il fatto che parlare di moda significhi richiamare termini come bellezza, stile, gusto, piacere non è sufficiente né risolutivo, dal punto di vista dell’estetica. S’è già ricordato come quello che si presenta come il legittimo ambito teorico nel quale collocare la moda (l’ambito dell’estetica) abbia tenuto fuori la moda. Con un «gesto di riduzione» l’estetica moderna si è concentrata su quelle che ha considerato “arti belle”, separate dalla sfera degli interessi e dei bisogni materiali. Vista in questa prospettiva, quindi con categorie pre-novecentesche, la moda rientrerebbe nel discorso estetico solo se considerata nella sua capacità di produrre abiti particolari e oggetti di lusso. Nel XX secolo il quadro cambia e, soprattutto in tempi più recenti, le pratiche artistiche iniziano a manifestare analogie con processi industriali e spettacolari, accentuando sempre di più un carattere performativo, collettivo ed esperienziale. Questo, unitamente al processo di estetizzazione diffusa proprio dell’età contemporanea, ha inevitabilmente comportato un’emancipazione e un superamento del fenomeno estetico rispetto alle tradizionali griglie culturali e ha prodotto un progressivo ampliamento dell’interesse teorico dell’estetica nei confronti di ciò che ricade al di fuori dei confini dell’arte. Da questo quadro consegue un apparente paradosso per la tradizione estetico-filosofica: «nel momento in cui l’esteticità si diffonde ai suoi massimi livelli, è la moda e non l’élite ristretta delle belle arti ad assurgere a fenomeno-chiave nel quale si consolidano le logiche dominanti del gusto. Accade così che nell’epoca dell’estetizzazione non sia tanto la moda a dover cercare una legittimazione in quanto arte, ma sia piuttosto l’arte a dovere apprendere dalla moda strategie e logiche per recuperare efficacia, pervasività, comunicatività» (p. 18).

La moda mette in crisi i confini dell’estetico, proprio nell’epoca in cui i luoghi tradizionali dell’arte (musei e gallerie), che generalmente sono stati considerati i “laboratori” all’interno dei quali formulare gli standard e i parametri del bello e del gusto, si riscoprono sempre più distanti dalla quotidianità. Quest’ultima, invece, appare densa di contenuto estetico e attraversata da processi e dinamiche che caratterizzano e animano specificamente la moda, che è il luogo dell’effimero, dell’apparente, del transitorio, del mutevole, di tutto quello che la cultura occidentale ha respinto per secoli e che ora, invece, innerva la realtà e la sensibilità contemporanee. Siamo di fronte al «ritorno del rimosso». La prima sfida, allora, è riconoscere e collocare nell’ambito dell’estetico pratiche quotidiane e non soltanto contenuti culturali definiti e idealizzati, ma anche individuare gli strumenti concettuali più idonei per procedere lungo questa via.

Il secondo nucleo problematico individuato dall’Autore riguarda la questione categoriale della moda e l’estetico come campo dinamico e forme di vita. Per districarsi in questa rete di questioni, Matteucci procede con il confronto tra le griglie concettuali elaborate nel mondo anglosassone e il contenuto caratteristico della moda. La prima posizione teorica («Moda e regimi estensionalistici») è quella sostenuta da Nelson Goodman, caratterizzata da un nominalismo anti-essenzialista che non prevede entità o essenze universali al di fuori di particolari sistemi simbolici, per un verso, e da un estensionalismo anti-psicologista che intende le relazioni tra i simboli come autoreferenziali, per altro verso. In questo quadro, i “segni” acquistano una funzione solo in relazione a un certo sistema simbolico, sulla base della nota distinzione tra regime “autografico” (centrato sul sigillo dell’autore, sulla sua firma) e regime “allografico” (nel quale le copie hanno lo stesso valore dell’originale). Tale distinzione non si applica in modo schematico alla moda, la quale oscilla costantemente tra i due regimi (si pensi alla haute couture o agli street styles), configurandosi come un campo dinamico e tutt’altro che schematico. La seconda posizione teorica («Moda e intensionalismo interpretativo») rinvia ad Arthur C. Danto, per il quale qualsiasi oggetto può essere trasfigurato in opera d’arte a seguito di un processo di tipo interpretativo. Anche in questo caso, rileva Matteucci, la moda aiuta a mettere in luce il carattere rigido e parziale dell’impostazione: «la moda compie sì quotidianamente una “trasfigurazione del banale” quando eleva un qualsiasi accessorio della nostra esistenza o un qualsiasi capo del nostro potenziale guardaroba in un segno distintivo socialmente efficace; ma lo fa valorizzando e intensificando la componente percettiva, formale, concreta dell’oggetto medesimo, che viene ad assumere una connotazione sensibile assolutamente diversa» (p. 23). La terza posizione («Moda e teoria istituzionale») è quella sostenuta, tra gli altri, da George Dickie e da Howard Becker, secondo la quale è considerata opera d’arte quell’oggetto che il mondo istituzionale (galleristi, curatori, critici, ecc.) considerano tale. Questa posizione, tuttavia, tende a considerare irrilevanti le dinamiche costitutive e processuali dell’opera. L’applicazione della teoria istituzionale alla moda contribuisce, anche questa volta, a renderla più flessibile. E dunque, la moda o, meglio ancora, ciò che fa moda, sostiene l’Autore, non è solo quello che viene prodotto come oggetto, ma anche il sistema simbolico-rappresentazionale implicato. La quarta posizione teorica («Moda e forma di vita») rinvia a Richard Wollheim, il quale, anziché porsi come obiettivo quello di definire in modo univoco l’arte e l’oggetto estetico, invita i filosofi a indagare le modalità con cui si configura e prende forma un’esperienza estetica e ciò che identifica un campo estetico. Equiparare l’arte o il campo estetico a una «forma di vita» significherà allora «considerare primariamente pratiche esistenziali, tanto percettive quanto culturali, nelle quali i soggetti coinvolti esprimono e tracciano un orizzonte di gusto condiviso» (p. 29). In un contesto teorico siffatto, che pone come proprio orizzonte l’approfondimento e l’analisi del quotidiano inteso come ciò che contiene in sé uno o più campi estetici, è chiaro come rientri a pieno titolo la moda, intesa tanto come struttura concettuale quanto come struttura categoriale.

Veniamo, poi, al terzo problema teorico posto dalla moda, quello antropologico, che implica il rapporto tra estetico e processo di costituzione dell’identità. Concepire l’estetica come una forma di analisi e teoria del quotidiano significa inevitabilmente formulare dispositivi concettuali che hanno a che fare con le strutture sociali, che si intrecciano con esse e che ne fanno emergere proprietà e caratteristiche. La moda manifesta qui tutta la sua centralità, dato il suo ruolo nella determinazione degli standard di gusto. Georg Simmel, con il suo celebre saggio La moda (1911), ha per primo analizzato questo fenomeno nelle sue relazioni con la società e con lo sviluppo delle metropoli. Sotto questo profilo, l’estetico e il sociale tendono a combinarsi e l’uno spiega, giustifica e contemporaneamente struttura l’altro. L’elaborazione del gusto è sempre meno un fatto privato e sempre più un fatto pubblico e, come tale, si lega in profondità con il più generale processo di definizione dell’identità individuale e collettiva. È qui che si colloca quello che l’Autore definisce l’«enigma filosofico della moda»: «come sia possibile che qualcosa che appare del tutto trascurabile per quanto riguarda le decisioni essenziali dell’esistenza diventi, invece, il campo di battaglia in cui si combattono e si risolvono in prima e ultima istanza lotte e conflitti per l’affermazione dell’identità» (p. 32).

Le relazioni tra abbigliamento, sistema simbolico e identità, tra corpo biologico ed essere sociale, si rivelano fondamentali per la determinazione dell’essere umano in generale. Nel costituirsi delle relazioni sociali, la scelta dei modi con cui coprire il corpo ha delle implicazioni e delle conseguenze rilevantissime, proprio per il loro essere strutturati come sistemi simbolici significanti. A queste dinamiche è intimamente connesso uno dei caratteri tipici della moda, vale a dire la sua costante oscillazione tra originalità e convenzionalità, in un generale e incessante fluire, a cui corrisponde quella tra individualismo e conformismo (dinamiche, queste, che possono essere intese come una variazione sul tema, laddove il tema è la teoria evoluzionistica di Darwin). La moda, quindi, si caratterizza anche per il fatto di innescare meccanismi di definizione dei gruppi sociali, accelerando il processo di polarizzazione tra élite e massa.

Il quarto problema proposto da Matteucci è quello politico e riguarda l’estetico inteso come valore simbolico. Attraverso la «dialettica esibitiva» e l’«intersoggettività estetica» (piano socio-antropologico) è possibile transitare, sempre nel campo estetico, verso l’attribuzione di un valore a ciò che emerge nella sua articolazione esperienziale e che contrassegna un potere esercitato nell’apparenza (piano socio-politico). L’estetico si configura come “valore”, specifica l’Autore, non in virtù di una specificità ontologica, quanto invece in forza della sua irruzione e diffusione sulla superficie dell’apparenza: «la forza dell’estetico sta […] nel rendere percepibile qualcosa di materialmente assente, di immateriale, che tuttavia vincola molteplici individualità instaurando un nesso che determina posizioni di dominio e posizioni di subordinazione. Così, nella manifestazione del prestigio il valore simbolico che viene mediato diventa, per il suo innervare un campo […], il vero oggetto del contendere» (p. 39). Contesa e conflitto, pertanto, si articolano nell’esperienza estetica legata a ciò che assume valore simbolico e che determina un costo, un rango, una differenza, un’efficacia politica. Tutto, come precisa Matteucci, nella «dimensione dell’apparenza». Si può collocare in questa prospettiva, allora, l’ondata di protesta sociale che caratterizza l’Occidente dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta del secolo scorso, connotata com’era da precise caratterizzazioni vestimentarie (si pensi, ad esempio, al punk, che poi verrà portato in passerella da Vivienne Westwood, concludendo quindi la propria apparentemente paradossale parabola con l’integrazione nel sistema della moda ufficiale). Il messaggio di critica sociale e politica comporta anche, dal punto di vista formale e simbolico, un codice d’abbigliamento, che finisce con il funzionare come messaggio non verbale, funzionale alla comunicazione protestataria. Da allora, scrive l’Autore, «è il modo di indossare la bellezza a generare omogeneizzazione e differenziazione, inclusione ed esclusione, ed esso viene governato attraverso la logica della moda, che anche per questo si rivela ben altro dalla successione e dalla collezione delle forme del costume. Nel contesto sociale l’apparenza agisce ora da manifesto politico più ancora che da manifestazione del politico» (p. 41).

Il quinto e ultimo problema posto da Matteucci nell’analisi filosofica della moda è quello esperienziale, in riferimento al rapporto tra estetico e apparenza dell’effimero. È bene ricordare, ancora una volta, come il rilievo assunto dalla moda sia costitutivamente connesso all’estetizzazione della situazione esistenziale nella contemporaneità. Scandendo un flusso esperienziale che si articola a partire dal mutevole, si nutre dell’effimero e si sostanzia nel consumo, la moda si inserisce nel tempo in cui ci si è gradualmente congedati, come scrive l’Autore, da ogni criterio legato a contenuti cognitivamente determinati o determinabili. Essa è l’«ultima riserva antropologica di sensatezza proprio in virtù della sua carenza di significato sostanziale» (p. 45) e si struttura attorno a delle polarità ai cui estremi troviamo la linearità e la circolarità, l’innovazione e la tradizione. Questa matrice antinomica, prosegue Matteucci, è al fondo del principio della “tendenza”, che indica qualcosa che ha la capacità di imporsi energicamente e rapidamente ma che, con uguale rapidità, decresce e si dissolve. È così che il campo estetico ospita «un gioco intrecciato di tendenze che rimpiazza quella mera successione di stili prevista, invece, da una storiografia dell’estetico e dell’arte improntata alla discontinuità tra contenuti determinati e determinabili. Tendenza è ciò che articola un processo senza compromettere né la continuità né l’imprevedibilità del suo sviluppo; essa emerge per effetto improvviso di una costellazione e si esaurisce nella mera apparenza quale celebrazione dell’effimero» (ibid.). Nell’argomentazione condotta da Matteucci, alla base di questi processi e di tali dinamiche vi è una precisa pratica della bellezza, che si aggiunge a quelle per comprendere le quali si può far riferimento ai concetti nietzscheani di apollineo, dionisiaco e socratico: è la bellezza adonica, che si colloca in un ideale punto intermedio tanto tra l’apollineo e il dionisiaco, ma anche in relazione con il socratico. Più precisamente, i quattro tipi di pratiche della bellezza, anziché attraverso una disposizione gerarchica, possono essere organizzati su assi ortogonali. L’asse verticale, prosegue l’Autore, esprime la polarità del divino e va dal profondo che è ebbrezza e smarrimento (dionisiaco) all’eccelso che è formale e contemplativo (apollineo). L’asse orizzontale, invece, si muove dal riflessivo che si applica all’astuzia e alla tecnica (socratico) al momento della bellezza che riguarda il desiderio e l’investimento della libido su quanto appare (adonico). A quest’ultima pratica della bellezza appartiene la moda.

Il volume di cui stiamo parlando ha come obiettivo principale, per come scrive Matteucci, quello di individuare le possibili coordinate generali di un’estetica della moda. Quest’analisi filosofica, allora, non poteva non affrontare anche il delicato rapporto tra moda e belle arti, pratiche che sono spesso venute in contatto e le cui relazioni non possono che essere biunivoche. È allora interessante considerare i casi in cui elementi dell’arte vengono assimilati dalla moda, ma anche i «casi in cui sono elementi propri della moda a sconfinare nel territorio delle belle arti». È ciò di cui parla l’Autore nell’excursus dedicato alla Dialettica dell’effimero. La funzione di tale excursus è dichiaratamente quella di mostrare che «agendo all’interno della rappresentazione – e della rappresentazione artistica – della donna e del corpo femminile, esattamente nel suo connotare la bellezza di moda l’effimero può essere letto come un fattore di potenziale riscatto ed emancipazione del corpo femminile dalla sudditanza rispetto a un immaginario repressivo. L’effimero porta, cioè, la donna “fuori quadro”, la proietta verso l’esterno dello spazio della rappresentazione, e dunque infrange i limiti della pura e semplice messa in scena del corpo femminile a uso e consumo dello sguardo che lo rende meramente oggettivo» (p. 53).

Matteucci procede con l’analisi della rappresentazione artistica della donna, proponendo una distinzione tra la donna “dentro al quadro” e quella “fuori quadro”, di cui un esempio eminente viene qui ritracciato nella Signora in mauve (1922) di Lyonel Feininger. La donna “dentro al quadro” è quella, ad esempio, raffigurata in alcuni dipinti di Silvestro Lega, Francesco Hayez, Gustav Klimt o Diego Velázquez. In tutti questi casi, «la donna viene collocata sulla scena per svolgere un ruolo che le è stato assegnato da un immaginario e da un sistema culturale che ne prevede la passività oggettuale. È in tal senso che si può parlare di donne che stanno perfettamente “dentro al quadro”» (p. 54). Nel caso della donna rappresentata da Feininger, invece, si tratta di una figura che è sì ancora al centro della scena, ma è già sul punto di venirne fuori, alludendo a un “fuori quadro” che, più che avere il carattere della stabilità, ha quello della transitorietà, del passaggio, della «passerella». Secondo l’Autore, tra queste due configurazioni spaziali c’è la stessa differenza che intercorre tra un’opera teatrale e una sfilata di moda: nella prima, chi entra in scena ha un ruolo e interpreta un personaggio che, tranne nei casi delle comparse, ha una continuità nel tempo; nella seconda, invece, si entra e si esce come sul nastro dei bagagli di un aeroporto, sebbene con un aspetto ogni volta diverso. Non c’è il tempo della caratterizzazione e lo sguardo rigido delle modelle, specifica Matteucci, è il grado zero dell’espressività, che deve rendere la presenza fisica neutra a tutto vantaggio dell’abito: il corpo diventa accessorio e secondario e non deve generare interferenze. Se Feininger offre il modello artistico della donna “fuori quadro”, Baudelaire ne offre uno letterario, con il celebre sonetto XCIII de Les fleurs du male, À une passante, dedicato a una donna, bellissima, vestita alla moda, che compare all’improvviso, attraversa una via, incrocia lo sguardo del poeta e scompare nella folla.

L’Autore si sofferma poi su un doppio modello di interpretazione artistica della «fantasmagoria dell’effimero»: quello rappresentato, ad esempio, dal Giovanni Boldini de La signora in rosa (1916), dipinto nel quale la donna attrae lo sguardo dello spettatore e rappresenta il fulcro dell’immagine, e dalla Tamara de Lempicka del Dipinto di donna con guanto verde (1927-29), nel quale, invece, l’immagine si fonde con un’onda di energia che torce il corpo e lo proietta al di fuori della rappresentazione, rendendolo insostanziale. Anche attraverso l’analisi della rappresentazione artistica della donna, della femminilità, degli accessori e degli abiti è possibile notare come l’effimero, prosegue Matteucci, mostri di vivere di un principio dialettico che oscilla tra «frivolo» e «transitorio»: «la mancata distinzione tra queste polarità ha screditato l’effimero come tale, equiparato esclusivamente alla frivolezza e per questo ignorato nella sua funzione dirompente di fattore cruciale della transitorietà. Questa distinzione tra componente oggettuale e componente processuale dell’effimero è di grande rilievo. È solo in base ad essa che sembra possibile attribuire il giusto significato alla bellezza come pratica. […] Se come oggetto effimero l’estetico appare privo di serietà, come processo effimero esso è invece esperienza dell’instabilità e dunque attestazione dell’esigenza di progettare» (p. 59). Individuato nella sua natura dialettica, l’effimero finisce allora con il coincidere con il «passaggio inaugurale alla performatività» che emerge in tutta la sua pregnanza nella transitorietà e in una sorta di liberazione: «esteticamente, la donna esce dal quadro portando con sé una bellezza praticata perché centrata sull’effimero irrisolto nella frivolezza ma acuito nella sua forza dialettica» (p. 65).

Come si diceva in apertura, alla Parte prima, scritta da Giovanni Matteucci, segue una Parte seconda, che a sua volta consta di due utilissimi contributi, scritti, nell’ordine, da Stefano Marino e Gioia Laura Iannilli, che arricchiscono l’argomentazione filosofica condotta nelle pagine precedenti, dandole una chiara collocazione nella storia del pensiero e restituendole un’eccezionale attualità, anche nell’ambito degli studi di estetica.

Nel suo articolato contributo storico-interpretativo, Marino introduce l’itinerario che propone ribadendo come la moda abbia tutti i requisiti per essere considerata oggetto di studio teorico. Tuttavia, fino a un certo momento della storia del pensiero, non sono stati i filosofi a occuparsene, quanto invece intellettuali autori di opere ricche di contenuti filosofici: Adam Smith con la Teoria dei sentimenti morali (1759), Giacomo Leopardi con il Dialogo della moda e della morte (1824), Honoré de Balzac con il Trattato della vita elegante (1830), solo per citarne alcuni richiamati in queste pagine. Pur trattandosi di autori di grande rilievo e di opere significative per comporre una panoramica delle diverse posizioni sulla moda, aggiunge l’Autore, non si tratta di testi filosofici stricto sensu. Ma perché la filosofia ha avuto paura della moda? Intanto, «molti filosofi non hanno considerato la moda come un argomento degno di riflessione filosofica. Ciò, probabilmente, a causa dell’ineliminabile legame che la moda ha con interessi e scopi estrinseci, nonché con aspetti della nostra esistenza come la sessualità, il desiderio, la caducità, la dimensione corporea della vita in generale e, last but not least, con la sfera delle pure e semplici apparenze, dell’apparire in quanto tale» (p. 72). A partire da questa valutazione iniziale, Marino procede con un’attenta e puntuale ricognizione storico-critica delle varie «filosofie della moda», con la quale viene dimostrato come vi sia stato, tra Ottocento (secolo durante il quale la moda si afferma come sistema e come forma culturale) e Novecento, un sincero interesse nei confronti di questo fenomeno. Va precisato come, dal punto di vista della prospettiva teorica, l’Autore procede con la selezione degli autori e delle opere centrandola sulla nozione di imitazione (a cui corrisponde, al polo opposto, quella di distinzione), alla quale – pur essendo essenziale per la comprensione del fenomeno oggetto di analisi – si aggiungono altri elementi che specificano la funzione della moda nei termini di «processo di individualizzazione e di socializzazione», «mezzo di rappresentazione e di mobilità sociale», «relazione fra consumo e produzione», «mezzo di differenziazione di genere ed età». Sottolineare la rilevanza della nozione di imitazione significa richiamare una spiegazione classica della natura della moda, collegata al cosiddetto modello trickle-down, secondo il quale i nuovi stili vengono lanciati dalle élite e poi assimilati dagli strati sociali inferiori, scandendo un movimento che va dall’alto verso il basso. Nel Novecento, rileva Marino, sono state formulate teorie alternative, che sostengono, al contrario, un modello trickle-up, in base al quale lo stilista elabora soluzioni a partire dal gusto dei consumatori. Ma sul tema dei processi imitativi torneremo tra poco. Prima, però, seguiamo rapidamente Marino lungo il suo percorso di ricostruzione delle filosofie della moda che si sono succedute nel tempo, a partire dalla seconda metà del Settecento.

Alla fine del XVIII secolo, il filosofo tedesco Christian Garve scrive un saggio dal titolo Sulle mode (1792), nel quale prende le mosse dall’osservazione dei rapporti che si creano tra gli individui di una comunità, caratterizzati da diverse forme di imitazione (in alcuni casi involontaria e in altri intenzionale), tra le quali compare la moda. Peraltro, questa tendenza a uniformarsi attraverso l’abbigliamento, secondo Garve non è un fenomeno moderno, come molti studiosi tendono a considerarlo, quanto una pratica che c’è sempre stata da quando esiste l’uomo. Inoltre, Garve prende in esame le leggi che sottostanno a una siffatta forma sociale e gli oggetti che rientrano nella sfera d’influenza della moda: le cose (tra le quali, primariamente, gli abiti) e le azioni. Questo significa che, nell’ampia prospettiva del filosofo tedesco, “il principio universale della moda” consiste «nell’“impulso all’imitazione» ed è «collegato, a sua volta, al fondamentale “impulso alla socievolezza” che è comune a tutti gli esseri umani» (p. 80). Quella di Garve non è l’unica voce che si leva nell’ambito delle riflessioni sulla moda. Forse un po’ inaspettatamente, questo fenomeno trova spazio anche nella fondamentale attività filosofica di Kant. Egli, nell’Antropologia pragmatica, propone infatti delle considerazioni filosofiche sulla moda, riconducendola nuovamente al principio dell’imitazione.

Le pagine dedicate agli sviluppi ottocenteschi della questione presa in esame si aprono con Hegel, il quale, in un sottoparagrafo della sezione dedicata alla scultura, nella sua Estetica, fa riferimento al “vestire in generale”, inteso come pratica la cui utilità risiede nel difendersi dalle intemperie e soddisfare l’umano senso del pudore. Pur considerando la moda qualcosa di completamente inartistico, Hegel attribuisce a essa una certa «razionalità», intesa in particolare nel senso di una logica interna, in base alla quale la moda sarebbe caratterizzata da una sorta di “coazione” al rinnovamento. Ancora nel XIX secolo, poi, anche Nietzsche non trascura la moda, intendendola – per come scrive Marino, rifacendosi a due aforismi tratti da Umano, troppo umano II – sia come qualcosa che trova la propria origine nell’imitazione e che funge da elemento stabilizzatore della personalità sia nel suo presentarsi nella forma del contrasto tra “costumi nazionali”: «per il filosofo tedesco, “segno caratteristico della moda e del moderno” è proprio “il rifiuto della vanità nazionale, di classe e individuale. Corrispondentemente è cosa lodevole […] che singole città e paesi d’Europa pensino e inventino per tutti gli altri in fatto di abbigliamento, considerando che il senso della forma non è dono di tutti» (p. 84). La ricognizione delle posizioni emerse nell’Ottocento prosegue poi con autori come Hermann Lotze – che non si sofferma sull’utilità degli abiti emersa, ad esempio, in Hegel, ma che considera il piacere derivato dall’abbigliamento come una forma di estensione della sensibilità a ciò che è immediatamente a contatto con il nostro corpo – o William James – che con quella che è stata definita “filosofia dell’abito” intreccia la questione dell’uso dei vestiti con la strutturazione del Sé e dell’Io materiale fondato su ciò che viene considerato proprio, di se stessi. In questa ricca rassegna, l’Autore si sofferma poi su Herbert Spencer, Friedrich Theodor Vischer e Friedrich Kleinwächter. In particolare, per quel che riguarda Spencer, quello che emerge dall’articolo Costumi e mode e da due capitoli del primo volume dei Principi di sociologia è che per il filosofo britannico l’origine dei costumi risiede nel “desiderio dell’ammirazione”, «nel bisogno di esprimere se stessi anche adornando e decorando i propri corpi: un bisogno che è caratteristico degli esseri umani e che rappresenta uno dei fattori sulla soglia tra natura e cultura, per così dire, che rendono la specie umana così particolare» (p. 89). La moda, ancora una volta messa in relazione con la nozione di imitazione, viene considerata da Spencer come una “categoria di regole sociali”, che si presenta come una forma di mediazione, come un compromesso tra “coazione governativa” e “ libertà individuale”, che ha molto a che fare anche con la dimensione politico-sociale: con il diminuire del controllo governativo sulle azioni individuali decresce la rigidità della moda. Vischer, per parte sua, si sofferma in particolare sull’abbigliamento femminile, la cui critica si inserisce in una più generale critica dei costumi del suo tempo, da intendere – come precisa Marino – come Sitten, vale a dire come regole, abitudini, norme di condotta. Quel che emerge dalla trattazione di Vischer, il cui procedere è pungente e ironico, è una concezione della moda come un fenomeno livellante e omogeneizzante, che “rende uguali sia i popoli che gli individui” e che funziona, anche per il filosofo tedesco, come un dispositivo essenzialmente imitativo.

Il paragrafo dedicato alle prospettive primo-novecentesche prende le mosse da Émile-Auguste Chartier, noto come Alain, il quale colloca la moda nel sistema delle belle arti, assegnando un notevole rilievo a uno dei processi innescati dalla moda e cioè la ricerca della differenziazione e dell’originalità. Quest’ultima, tuttavia, “non è che un modo inimitabile di essere come tutti gli altri”: «nessuna differenza può infatti risaltare, essere percepita e riconosciuta, e più in generale non vi sono differenze tout court, se non “su uno sfondo di somiglianza ed in virtù della somiglianza stessa”» (p. 97). Alle pagine dedicate ad Alain segue una trattazione (doverosamente) più approfondita de La moda di Georg Simmel, il quale considera la moda come un “fenomeno generale nella storia della nostra specie”. Nell’analisi simmeliana torna al centro dell’indagine la nozione di imitazione, che il filosofo e sociologo tedesco considera come una sorta di “ereditarietà psicologica, come il trasferimento della vita di gruppo nella vita individuale”. L’imitazione è al contempo figlia del pensiero e dell’assenza di pensiero, dando all’individuo – prosegue Simmel – la sicurezza di non essere solo nelle sue azioni. Il fatto di imitare, inoltre, procura una certa liberazione dal peso della responsabilità, non vissuta più individualmente ma attribuita al gruppo all’interno del quale si agisce e ci si imita. Questo atteggiamento caratterizza un grado di sviluppo nel quale è forte il desiderio di un’attività personale finalizzata, ma in assenza della capacità di conquistare dei contenuti individuali idonei per quest’attività. L’Autore prosegue con l’analisi – alla cui lettura rinviamo – del saggio di Simmel, che si chiude con un riferimento a Walter Benjamin e al suo celebre capolavoro dedicato ai passages parigini.

La parte dedicata al secondo Novecento si apre con Theodor W. Adorno, sulla cui sprezzante critica della moda Marino invita a esercitare una certa cautela. La critica adorniana della moda non si limita, negativamente, a collocare il fenomeno entro il perimetro da esso condiviso con altri prodotti dell’industria culturale ma, positivamente, ne rileva la trasparenza e la sincerità: «a differenza dell’arte avanzata o d’avanguardia, essa non nega affatto [i legami con l’industria culturale], anzi è fin troppo esplicita nel lasciar trasparire il suo essere “collusa” con il mercato» (p. 104).

Dagli anni Sessanta del secolo scorso, rileva l’Autore, la riflessione teorica sulla moda va via via specificandosi all’interno delle discipline che se ne occupano, ciononostante è possibile riferirsi a un ultimo filosofo, Eugen Fink, autore di un volume dal titolo Moda: un gioco seducente (1969), dal quale emerge un approccio antropologico-filosofico di matrice fenomenologica. Quel che sembra dirci Fink è che l’abito e, ancora meglio, il vestito alla moda si configurano quasi come un “secondo corpo”, come «un’attività contraddistinta da un “intrinseco carattere oppositivo-relazionale” che la porta “tanto a negare la nudità naturale quanto a negare l’abbigliamento eccessivamente coprente o avviluppante”» (p. 108). Di fatto, Fink, la cui articolazione concettuale ha una connotazione che si potrebbe definire dialettica, pone l’accento sul carattere sostanzialmente ambiguo della moda, che in qualche modo riflette l’ambiguità di fondo dell’uomo.

Il volume che qui stiamo presentando, per come già ribadito, si chiude con il contributo di Iannilli, che si incarica di spiegare come l’approccio della cosiddetta Everyday Aesthetics possa legittimamente occuparsi di un fenomeno come la moda, colpevolmente rimasto fuori dall’orizzonte dei suoi principali esponenti. L’Autrice, a fronte di una tale sottovalutazione, sostiene in modo convincente una tesi netta: «la moda, nel suo plasmare l’esperienza quotidiana, tende a enfatizzare specifiche strutture di quest’ultima che non possono essere trascurate da un punto di vista eminentemente estetico, dal momento che esse hanno esito in particolari configurazioni dell’estetico nel quotidiano; pertanto, se l’EA [sigla che sta per Everyday Aesthetics] si impegnasse in un’analisi della moda, potrebbe trovare in essa una matrice di tutto rilievo per l’analisi della realtà quotidiana e contemporanea dell’estetico» (p. 112).

Da riconosciuta componente di un gruppo di ricerca che approfondisce questo recente approccio teorico – che prende avvio in ambito nordeuropeo e statunitense per poi diffondersi a livello internazionale –, Iannilli struttura la propria argomentazione partendo dall’analisi dell’apparenza e della moda proposta da Ossi Naukkarrinen, uno dei principali esponenti dell’EA, e che si fonda sulla tesi per cui la moda e l’estetico non possono essere equiparati. L’Autrice, che cerca di superare la frattura tra estetica, economia e semiotica, sostiene invece che – dal momento che quotidianamente operiamo scelte che in qualche modo rinviano a delle preferenze di gusto – «la dimensione estetica non va isolata da quella economica e semiotica proprio se se ne vuole indagare l’ampia diffusione nell’ambito dell’apparenza umana» (p. 117). Allo stesso tempo, è indubitabile come la realtà economica non possa oggi essere adeguatamente compresa se non anche alla luce dei processi di estetizzazione. C’è, infatti, un nesso profondo tra pratiche e dinamiche di consumo e il grande rilievo che ha l’aspetto visuale nella e della vita quotidiana. Attestare queste relazioni vuol dire anche porre nel giusto rilievo un altro nesso, che tiene insieme l’estetico e il semiotico nel più ampio contesto delle reti relazionali, giacché la dimensione intersoggettiva è profondamente legata all’espressione e comunicazione simbolica (e non necessariamente proposizionale) delle preferenze di gusto. Quanto sintetizzato, che Iannilli definisce un «doppio emendamento ai presupposti della tesi di Naukkarinen», funziona da premessa a quattro «clusters concettuali» relativi all’“estetico”, formulati dall’Autrice a sostegno, invece, della propria tesi, così schematizzabili: 1. l’estetico è inestricabilmente connesso ai processi di mercificazione; 2. l’estetico ha a che fare con le nozioni di “identità” e “deittico di gusto”, quindi di “intersoggetività”; 3. alla dimensione superficiale della realtà a cui si riferiscono i primi due clusters corrisponde un’opposta profondità, legata all’impatto che le succitate nozioni e l’immediatezza delle apparenze (quindi, dell’estetico) hanno sulla modulazione della contemporaneità; 4. la dialettica immediatezza/mediatezza, visibilità/invisibilità, tangibilità/intangibilità, superficie/profondità sta alla base del fenomeno della moda e delle modalità con cui essa orienta il quotidiano.

Il passaggio successivo che compie l’Autrice è quello di analizzare la connessione, appunto, che vi è tra moda ed estetica della vita quotidiana, in tal modo ovviando a quella sorta di «deficit teoretico» che Iannilli attribuisce all’EA, nel momento in cui quest’ultima, a fronte di una dichiarata volontà di superare il paradigma artecentrico dell’estetica filosofica e ogni forma di prescrittivismo, finisce con lo sviluppare «una sorta di “inclusivismo” teoretico, che rischia costantemente di ridurre questa branca dell’estetica a un “default third basket” per ciò che non lascia sussumere docilmente sotto le categorie della bellezza artistica o naturale […], ossia a una collocazione teoretica “d’emergenza” senza particolare rigore concettuale e normativo […]» (p. 123).  A tal riguardo, la questione della normatività all’interno dell’EA, rileva l’Autrica, è stata posta solo in tempi recenti, in particolare grazie ad autori come Chris Dowling, Dan Eugen Ratiu, Jane Forsey e Giovanni Matteucci, il quale propone una distinzione tra una più proficua “opzione continuista” e una più limitata “opzione discontinuista”. A partire da quest’ultima distinzione e in riferimento alla moda, l’Autrice ne richiama poi un’altra, quella tra la sfera “iper-estetica” (alla quale apparterrebbe «la produzione ideologicamente ascrivibile al sistema della moda in quanto industria culturale, di oggetti e devices esperienziali, di cui l’estetizzazione corrente del quotidiano è un mezzo privilegiato di articolazione», p. 127) e quella “ipo-estetica” (alla quale «apparterrebbe l’articolazione dell’esperienza di oggetti ed eventi estetici che diventa possibile grazie alla moda, la quale rende questi ultimi disponibili ogni giorno», ibid.).

Per concludere, Iannilli sostiene che considerando il rapporto che lega la moda all’estetica della vita quotidiana, a partire dai contenuti estetici prodotti dalla prima, integrando poi questo aspetto con la capacità che ha la moda di produrre esperienze, è possibile interpretare «la moda “in modalità quotidiana” come un vero e proprio (processo di configurazione di uno) stile di vita», inteso come «manifestazione della sempre più diffusa ricerca di gratificazione […], secondo la quale, quando altri principi guida non sono più disponibili, o non sono più sufficienti, è esattamente l’estetico che determina le nostre scelte, e, in quanto tale, plasma in modo decisivo le nostre vite quotidiane» (pp. 128-9).

(1 giugno 2018)


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