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di GIACOMO FRONZI
Spesso l’estetica è stata considerata una disciplina filosofica intrecciata in modo pressoché inestricabile con l’arte e le sue diverse espressioni. Già nel corso del Novecento si è avuta un’estensione del territorio di pertinenza dell’estetica, fino a giungere a includere nuovi temi come l’atmosfera e gli spazi emozionali. Questa corrente, nata in Germania, ha trovato in Tonino Griffero il principale rappresentante nel contesto intellettuale italiano. Nel suo nuovo libro, Il pensiero dei sensi. Atmosfera ed estetica patica (Guerini e Associati 2016), egli delinea un articolato percorso con l’obiettivo di proporre un’estetica come teoria della conoscenza sensibile e delle atmosfere.
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I sentimenti si impadroniscono di noi nella forma di una potenza che proviene dall’esterno, ci afferrano, ci aggrediscono, e noi ne siamo posseduti[i].
I percorsi che hanno caratterizzato gli studi estetologici nel corso degli ultimi decenni sembrano andare verso una sempre maggiore emancipazione della disciplina rispetto ai suoi tradizionali campi di azione e di verifica teorica. L’apertura pressoché illimitata che l’Estetica vive da alcuni anni a questa parte ha cause e motivazioni sia interne che esterne. Per un verso, infatti, l’Estetica ha preso consapevolezza del fatto che i propri strumenti avrebbero potuto contribuire a fornire una lettura della realtà dai confini più ampi rispetto a quelli tradizionali della disciplina. Per altro verso, il mondo contemporaneo si è scoperto attraversato da tendenze, movimenti e orientamenti la cui più profonda comprensione passa da un’adeguata analisi di tipo estetico.
Se questa, grossolanamente, è la cornice generale, la ricerca di Tonino Griffero offre una chiave di lettura fondamentale per cogliere il senso di questo processo evolutivo e progressivo, che vede l’Estetica fare i conti con una realtà e un mondo non più riducibili alla sola dimensione dell’arte, delle arti o del bello. Griffero sostiene che «l’estetica andrebbe emancipata dalla sua interpretazione, prevalente dall’Idealismo tedesco innanzi, in termini di filosofia dell’arte, per tornare così al progetto originario (Baumgarten) di un’estetica, o meglio aistetica, come teoria generale della conoscenza sensibile (aisthesis)»[ii]. Lungo questa linea di sviluppo, l’estetica, ora nuovamente intesa come teoria generale della percezione sensibile, si emancipa non soltanto dal campo dell’arte (con il quale comunque continua a intrattenere un rapporto, ma nel senso che vedremo più avanti), ma anche dalla semiotica e dall’ermeneutica. Ciò significa, secondo Griffero, «marginalizzare la malintesa convinzione intellettualistica che la cosa fondamentale in estetica sia, rispettivamente, il giudizio riflessivo pronunciato da un esperto su una (supposta e spesso addirittura autodefinitasi come tale) “grande” opera d’arte, e la scoperta del significato dell’oggetto estetico – tra l’altro esemplato strabicamente quasi sempre sul testo scritto – al di fuori di esso, come se si trattasse di una sfera semantica cui rinvierebbe (in modo fatalmente solo allegorico) la natura segnica dell’opera, o addirittura di un evento dell’essere in essa appunto “messo in opera”»[iii].
L’allontanamento da questa prospettiva comporta l’avvicinamento a una visione diversa dell’estetica, nella quale ciò che viene evidenziato ed enfatizzato è innanzitutto l’«elemento esperienziale e la componente patica del rapporto con i molteplici oggetti “estetici”»[iv]. Dal punto di vista di questa neoestetica, che ha strettissimi rapporti con la Nuova Fenomenologia[v], un’attenzione teorica speciale viene riservata al fatto che ciascuno di noi è «in primis affettivamente (preriflessivamente e antepredicativamente) coinvolti dalle impressioni emanate da spazi e cose, il cui senso, tra l’altro, coincide in tutto e per tutto con questa loro presenza ed efficacia proprio-corporea (reale quindi nel senso di “attiva”)»[vi]. Questo prius di ogni nostra esperienza percettiva del mondo che ci circonda, della nostra esperienza affettivo-sensibile e non constativo-sperimentale, chiarisce Griffero, è ciò che definiamo «atmosfera».
Quello di atmosfera è un termine decisamente familiare e fa riferimento a situazioni che attraversano pressoché ogni momento dell’esistenza quotidiana di ciascuno (“c’è una strana atmosfera”, “si è creata una bella atmosfera”, “mi sento a mio agio”, “mi ha dato l’impressione di essergli indifferente”, e così via). Come precisa Griffero, probabilmente non esiste «una situazione che sia totalmente priva di carica atmosferica. […] E di atmosfere infatti parliamo continuamente, né ci stupiamo di riuscire a descriverle e di verificarne l’influenza sull’agire, talvolta perfino su eventi di portata storica. Vi ricorriamo per spiegare certe interazioni causali e per comprendere delle sintonizzazioni empatiche altrimenti incomprensibili, più in generale tutti quegli effetti che, sproporzionati rispetto alle loro cause, i saperi premoderni riconducevano a una misteriosa azione in distans»[vii].
Nonostante una tale e diffusa familiarità con l’atmosfera, alla domanda “che cos’è?”, sostiene Griffero, non è ancora stata data una risposta filosofica soddisfacente. O meglio, non è stata data fino a che non si è sviluppato quel filone di ricerca che, in particolare tra Germania e Italia, vede lo stesso Griffero tra i suoi principali protagonisti. All’atmosfera e all’estetica patica, in chiave neofenomenologica, Griffero ha finora dedicato molti anni di ricerca e altrettanto numerosi lavori, ultimo dei quali è quello che qui presentiamo. Pubblicato nella nota collana «Orientarsi nel pensiero» (Guerini e Associati), ora diretta da Elio Franzini, Il pensiero dei sensi. Atmosfere ed estetica patica si presenta come una fondamentale tessera nell’articolato e dinamico mosaico dell’estetica contemporanea, non solo di matrice italiana. Questo volume – che arricchisce, espande e applica il percorso di ricerca su questi temi avviato in particolare con il già citato Atmosferologia e proseguito con Quasi-cose. La realtà dei sentimenti[viii] – si pone il complesso e ambizioso obiettivo di «riabilitare filosoficamente la paticità», il che significa «conferire un valore (accademicamente sicuramente poco tradizionale) all’abbandonarsi, all’accettare di essere più soggetti-a che non soggetti-di», difendendo anche l’inattualità del dono di «saper essere veicoli dell’accadere anziché del fare» (p. 9). Ma cerchiamo ora di ripercorrere alcune delle tappe di questo importante lavoro, che senza dubbio illumina la ricerca estetologica di una nuova luce.
Ripartiamo da una domanda di base: cosa dobbiamo intendere per «patico» (che è qualcosa di molto diverso dal patetico e dal patologico) e, conseguentemente, per «estetica patica»? Richiamando il pensiero di Ludwig Klages, il quale ritiene di aver reintrodotto la dimensione della paticità nel pensiero moderno, Griffero fornisce una prima definizione di patico, in base alla quale esso sarebbe «il dono di ricevere anziché di produrre degli effetti, di essere posseduti dall’accadere attivo e di agire quindi solo alla luce di tale rapimento» (p. 9). Si tratterebbe, precisando ulteriormente, di vivere e contemplare le immagini che sono attive su di noi, ma di farlo al di fuori della coscienza e indipendentemente da essa. A questo livello, si manifesterebbe la vera realtà, nella dimensione di una «paticità animica e ritmica» (p. 10). Erwin Straus, prosegue Griffero, ci offre un’altra interpretazione del patico, termine con cui verrebbe indicato un momento presente in ogni percezione in quanto momento proprio di ogni esperienza vissuta al suo stadio più originario. Saremmo nell’ambito di una comunicazione preconcettuale, immediata, diretta, intuitivo-sensibile tra noi e le apparenze. Aver utilizzato il termine “comunicazione” – sebbene in un senso molto preciso e opposto rispetto a quanto andremo a precisare tra poco – ci offre la possibilità di richiamare alcuni aspetti che Griffero chiarisce in merito al tema del rapporto tra atmosfere e linguaggio: quale capacità ha il linguaggio di esprimere la pregnante prima impressione atmosferica? L’Autore suggerisce quattro possibili risposte a questa fondamentale domanda, richiamando un modello teorico di riferimento per ciascuna di esse: a) una situazione che noi consideriamo e viviamo come atmosferica è vivibile e relativamente verbalizzabile (Erich Rothacker); b) un’atmosfera risulta vivibile non nonostante ma solo perché (linguisticamente) decisa (Hans Lipps); c) una situazione per noi atmosferica è vivibile e solo riduzionisticamente verbalizzabile (Hermann Schmitz); d) una situazione per noi atmosferica è vivibile solo perché (linguisticamente) elusa (Hans Blumenberg) (pp. 147-59).
Fatta questa brevissima digressione, torniamo alle linee generali del programma teorico di Tonino Griffero. Nel suo progetto filosofico, occuparsi del patico e definire le linee essenziali di un’estetica patica significa focalizzare «l’attenzione teorica sulla affezioni vissute come un rapimento e un coinvolgimento, sui sentimenti proprio-corporalmente avvertiti in sé (ma senza rigorosa localizzazione organico-topologica) o con-patiti negli altri, ai quali non possiamo né reagire criticamente, né sfuggire mitigandone in qualche modo l’invadenza, ad esempio posponendone la soddisfazione» (p. 11).
L’atteggiamento del lasciarsi rapire e coinvolgere, però, non rinvia a una «nuance esclusivamente soggettiva»[ix] né va assolutamente confusa con una forma di inerzia, dal momento che la paticità a cui ci riferiamo è una passività tutt’altro che inoperosa che, anzi, può sconfinare nella passionalità e rappresenta, in ogni caso, «un’abilità che occorre faticosamente (re)imparare in un’epoca palesemente ossessionata da paraocchi costruttivistici» (p. 12). Tale paticità non è addomesticabile, si sottrae all’intenzionalità e alla ex-centricità. Queste caratteristiche rendono indubbiamente complessa una trattazione e una tematizzazione di tipo filosofico. Ma, sostiene Griffero, se è vero che logos e pathos non possono coesistere nel medesimo soggetto nel medesimo tempo, possono e devono «alternarsi, dando vita in questo modo a una forma di vita meno nevrotica appunto perché aperta a entrambe le opzioni, più precisamente a una forma d’esistenza in grado di riflettere sull’accaduto e di distanziarsi da quanto provato in fin dei conti solo perché in precedenza vi era pienamente coinvolta» (p. 14).
Aprire l’estetica a questa dimensione pressoché infinita significa anche riscattare e rilanciare una disciplina che, in effetti, se fosse rimasta chiusa nei confini del mondo dell’arte avrebbe corso il rischio, oggi, di perdere la propria ragion d’essere. Lo sforzo di Griffero sta proprio nel tentativo di elaborare un’estetica di più ampio respiro, che si possa pensare come «filosofia della conoscenza sensibile (o della sensibilità tout court), come un pensiero dei sensi (nel senso soggettivo e oggettivo del genitivo)» (p. 19). E l’arte che fine farebbe? Certamente non sarebbe esclusa dall’orizzonte dell’estetica e sarebbe impensabile che ciò accadesse. Tuttavia, l’arte e le sue dinamiche si configurerebbero non come il terreno d’analisi dell’estetica ma un terreno d’analisi e di verifica, uno dei tanti ambiti entro cui individuare, vivere e tematizzare atmosfere (si pensi alla tendenza propria dell’arte contemporanea di organizzare spazi emozionali, percettivi, interattivi, relazionali, ecc.), nel contesto, appunto, di un’estetica delle atmosfere. Come precisa Griffero, non si tratta di «colonizzare atmosferologicamente l’intero discorso sull’arte, poiché l’eccedenza, se c’è, è pur sempre duplice, dal momento che, mentre l’arte nella sua ricca stratificazione sociosimbolica risulta irriducibile a un’analisi (solo) atmosferologica, le situazioni atmosferiche risultano a loro volta irriducibili al numerus (comunque) clausus di quelle cose del tutto speciali, e tutt’altro che eterne, che sono le opere d’arte» (p. 30).
Quindi, se l’arte costituisce uno degli ambiti di applicazione dell’estetica delle atmosfere o dell’estetica patica, quali sono gli altri? Come già accennato, non c’è campo d’esperienza che possa dirsi escluso dal discorso atmosferologico, tanto che nel böhmeano lavoro estetico, recuperato anche da Griffero, rientrano pressoché tutte le attività che caratterizzano l’odierna esistenza: scenografia, pubblicità, pianificazione del paesaggio, organizzazione di eventi, allestimento museale, cosmesi, progettazione urbanistica, moda, comunicazione politica e istituzionale, industria dell’entertainment, marketing emozionale e polisensoriale orientato alla fidelizzazione, arredamento d’interni, ecc. (pp. 30-1). Si spiega così la grande ambizione dell’estetica patica, vale a dire quella di porsi, recuperando la radice originaria baumgarteniana, di teoria generale della percezione sensibile. Tuttavia, come precisa l’Autore, non si tratta di percezione sperimentale o constativa, ma vissuta e affettiva, e che si sviluppa nella simultanea presenza proprio-corporea di soggetto e oggetto. Al centro dell’interesse dell’estetica patica, infatti, vi è il modo proprio-corporeo specifico grazie al quale una cosa, una quasi-cosa, una persona, un ambiente o una situazione (comprese esperienze “limite” come quelle dell’estasi, del vuoto, dell’involontario o dell’inatteso, di cui il libro di Griffero tratta diffusamente) esprimono la propria presenza sensibile, orientandoci sulla base dell’eventuale distonia o sintonia con i nostri stati d’animo.
Un’estetica così ripensata, e che mette al centro l’apparenza e l’effimericità di tutto ciò che il pensiero occidentale aveva rimosso[x] o negato, inevitabilmente incrocia la dimensione etica. Vi è infatti un portato etico e, in senso molto ampio, pedagogico-educativo dell’estetica patica, dal momento che quest’ultima passa dal livello puramente teorico a quello pratico, proponendosi come una prassi grazie alla quale apprendere «come esporsi»[xi]. Ancora di più. Lungo questo percorso, svolgendo al meglio il progetto teorico dell’estetica patica, atmosferologica e neofenomenologica, sarebbe possibile porre le basi – e di questo ne è convinto innanzitutto Böhme – di una rinnovata «educazione estetica del genere umano». L’estetica delle atmosfere è inoltre «educativa in senso critico, nel rendere cioè consapevole la per lo più inconsapevole ma potente e permanente influenza da esse esercitata, e nell’istruire su come rapportarvisi con la necessaria competenza sul piano tanto operativo quanto ricettivo»[xii].
Griffero, nella sua articolata e complessa analisi, pare particolarmente interessato a sottolineare lo spessore e il profilo etici dell’impostazione atmosferologica. Se è vero che ogni pratica atmosferogena ha un implicito aspetto manipolatorio (che l’Autore suggerisce di intendere nel senso avalutativo di “persuasivo”), è necessario fare tre precisazioni: a) «solo acquisendo una migliore competenza atmosferica […] che si può davvero imparare, senza credersi liberi dall’affettivo, ma rapportandovisi pro e contro, a non essere grossolanamente manipolati» (p. 122); b) lo sviluppo di questa competenza depotenzia l’obiezione che l’uomo sarebbe «un cieco passeggero delle atmosfere»[xiii], non implica necessariamente «la possibilità di acquisire un punto archimedeo meno fallibile e sfuggente del personale senso critico» (pp. 122-3); c) «come l’esperienza del trompe-l’œil e degli spazi che chiamiamo […] “immersivi” conta pur sempre sul fatto che a una fase immersiva faccia seguito una fase emersiva, in parte emozionale e in parte riflessiva, così un’atmosfera ci pare scarsamente manipolativa, e quindi salutarmente disfunzionale per ogni demagogia, proprio quando stimola a sua volta una successione di questo tipo» (p. 123).
Già da quanto detto finora, appare chiaro come l’approccio patico e atmosferologico sia potente, così potente da indurre Griffero a porsi una domanda, che dà il titolo al terzo dei quattro capitoli in cui è articolato Il pensiero dei sensi: chi ha paura delle atmosfere (e della loro autorità)? Perché, in effetti, di autorità si tratta, benché non sia da considerare alla stregua di una norma sociale o di un pensiero. Tuttavia essa va ricondotta «a una sorta di prestigio o di “forza”, la quale costringe e trascina, quasi al modo di un automatismo, pur in assenza di coercizione fisica, potendo assumere varie forme e non certo solo le tre previste da Schmitz (giuridica, morale e religiosa)» (pp. 92-3). Quella delle atmosfere è una forma particolare e specifica di “normatività”, che appare imprecisamente diffusa all’interno di una situazione, ma così forte da condizionare le reazioni di chi in quella situazione è coinvolto. Se, però, si pone una relazione tra il sentimento atmosferico e la dimensione dell’autorità, si rischia forse di dare a questa fenomenologia le sembianze di una sorta di teologia? In effetti, risponde Griffero, il modello della concezione neofenomenologica delle atmosfere è collocato nella categoria di Rudolf Otto del numinoso, inteso come qualcosa di inquietante e affascinante al tempo stesso. Inoltre, il numinoso ha la qualità di essere esigente e sentimentale senza essere psicologico in senso soggettivistico e senza scivolare nella concretizzazione in divinità personali, quelle che poi le religioni storiche distingueranno anche per genere. L’atmosfera, analogamente, «è contagiosa e coercitiva, senza essere una proiezione del percipiente, e per certi aspetti è vincolata a luoghi emozionalmente specifici» (p. 94).
Un’altra interessante caratteristica di quella forma così specifica di autorità che l’atmosfera sembra esercitare riguarda il fatto che, a differenza di quella sociopolitica, l’autorità atmosferica non comporta il suo necessario e obbligatorio riconoscimento, giacché le atmosfere esistono in senso proprio, nell’atto, ed in quel modo manifestano la propria autorità. Quest’ultima, in ogni caso, è possibile distinguerla in due tipi: quella assoluta, alla quale non è possibile resistere, e quella relativa, alla quale si può resistere facendo leva su un più alto grado di emancipazione personale (p. 103).
È importante rilevare, poi, un altro aspetto che rende l’atmosferologia un approccio teorico che merita la massima attenzione, non soltanto nell’ambito degli studi filosofici. Prima si è detto, en passant, di come l’estetica patica e l’atmosferologia incrocino il piano etico. A ciò andrebbe aggiunto anche il piano politico. A tal proposito, Griffero rileva come la riflessione politologica non trarrebbe che beneficio da un dialogo e una collaborazione più stretti con il fenomenologo e l’estetologo, non tanto nel solco benjaminiano dell’«estetizzazione della politica», quanto invece «nel tentativo di stabilire come la politica si rapporti nelle proprie scelte e azioni all’atmosfera prevalente di una comunità, ossia – e nonostante la proverbiale effimericità di quello che tanto pomposamente quanto imprecisamente si usa chiamare “situazione politica” – a quel sentimento collettivo (Stimmung, mentalità, intenzionalità affettiva collettiva, clima, senso comune, milieu, perfino Zeitgeist) che, in quanto sfondo affettivo latente e pretematico (preriflessivo e spesso anche preverbale) in grado di generare una specifica risonanza proprio-corporea attraverso le proprie qualità sinestesiche e suggestioni motorie, della comunità in oggetto governa tacitamente i comportamenti e le valutazioni» (pp. 106-7).
Ampio spazio, nelle parti finali del libro, viene assegnato dall’Autore ai temi della città, dell’abitare e del genius loci (pp. 180-228). Mi soffermerò ora in particolare sui primi due.
La città costituisce un luogo potentemente atmosferico, dotato di una tonalità emotiva legata a una specifica risonanza proprio-corporea che il percipiente vive. La città, scrive Griffero, possiede una pelle emozionale e polisensoriale, «a tal punto che il townscape diventa talvolta un vero e proprio punto di orientamento psicotopico, il fulcro di mental maps in cui si condensa, fisiognomicamente, l’intera città (vissuta)». Da qui, in fondo, deriva anche la possibilità di identificazione affettiva e proprio-corporea con la città. Sentire di appartenere a una città significa poter portare “dentro di sé” quella città, quel contesto urbano nel quale i tracciati e gli spazi sono ben identificabili, nel quale si rende possibile l’interiorizzazione, da parte dell’abitante, della mappa strutturale della città, per poi poterla identificare con la propria mappa psichica. In ogni caso, l’atmosfera cambia a seconda del tipo di città, della sua storia, delle sue caratteristiche urbanistiche e architettoniche, che sia storica o sia una new town, e così via. Questo significa – precisa Griffero – che non è necessariamente priva di atmosfera «la città esclusivamente agglomerata, priva di un centro storico o di abitualità rassicuranti», la quale irradierà un’atmosfera specifica: non tranquillizzante ma inquietante, non armonica ma caotica, ecc. Ciò che suggerisce Griffero per un’adeguata analisi atmosferologica della città e della dimensione urbana è di evitare qualsivoglia oscillazione tra l’apologia dell’anomia e dell’aleatorietà e l’apologia di una Heimat identitaria. Detto altrimenti: «le eversive derive situazioniste, fin troppo indebitate con la coazione dell’arte contemporanea allo shock, non sono a nostro parere necessariamente più atmosferiche della flânerie, spesso ingiustamente stigmatizzata come una forma di idiotismo e di piccolo-borghese difesa dell’esistente» (p. 186).
Come accennato, al tema della città è inevitabilmente connesso quello dell’abitare e della presenza abitativa. Se è vero che si abita la città, è anche vero che ciò che si abita davvero, in modo proprio-corporeo, è la casa. Come giustamente scrive Griffero, le evidenze fenomenologiche relative alla centralità affettiva dell’abitare la casa sono innumerevoli: è sufficiente abitare una stanza piuttosto che un’altra per sentirsi modificati. Un’estetica patica non può che confrontarsi in modo non banale e non intuitivo con questi temi, a partire dall’affermazione di stampo schmitziano che abitare è una forma di cultura-coltivazione dei sentimenti all’interno di uno spazio chiuso, conchiuso, recintato e, quindi, sacro (nel senso di ciò che è separato), indipendentemente che si tratti di una casa, di una chiesa o di un giardino. Quel che comunque va rilevato e sottolineato è che non è sufficiente un tetto per poter dire di abitare: «occorre disporre di un luogo e di una situazione che, in un certo senso schermando una realtà di cui, però, evidentemente non ci si vuole del tutto privare, ci permettano di catturare, coltivare e amministrare […] atmosfere esterne altrimenti fuori controllo» (p. 193). Ma l’articolazione delle riflessioni di Griffero, naturalmente, non si ferma qui e prosegue in modo particolarmente affascinante, anche andando a colpire – accade spesso nel libro – quelli che potremmo definire genericamente “stereotipi” della filosofia moderna occidentale o quelle categorie che il pensiero occidentale avrebbe affrontato con toni al limite del dispregiativo, come la categoria – per restare in tema di “casa” e di “abitare” – di Gemütlichkeit, la cui atmosfera viene con forza riabilitata filosoficamente dall’Autore.
Per concludere, ne Il pensiero dei sensi Tonino Griffero ci offre un’ulteriore cogente prova filosofica dell’importanza e della centralità di approfondire teoricamente e praticamente la dimensione del “patico”, nella prospettiva di un’estetica patica, atmosferologica e neofenomenologica. Con questo lavoro, Griffero, per come egli stesso precisa nella Premessa, delinea «teoreticamente i contorni di una sfera che, come quella soprattutto in cui a farla da padrone sono dei sentimenti effusi nello spazio predimensionale (atmosfere), tanto quasi-cosalmente aggressivi da impadronirsi di noi o costringerci comunque a sentire qualcosa, quand’anche sulla base di un’infezione spesso solo ipodermicamente virulenta, risulta necessariamente e strutturalmente vaga e sfuggente, nonostante risulti indispensabile per dare alla nostra esistenza quel “colore” che, solo, in fin dei conti la rende significativa e prima ancora tollerabile, visto che, in questo senso, solo il sentimento certifica la nostra esistenza e la realtà (quella attiva, cioè la Wirklichkeit, e non quella solo cosale, cioè la Realität) del mondo» (p. 14).
NOTE
[i] C. Haensel, Das Wesen der Gefühle, Werner Wulff Verlag, Überlingen 1946, p. 52 (cit. in T. Griffero, Il pensiero dei sensi. Atmosfere ed estetica patica, Guerini e Associati, Milano 2016, p. 15).
[ii] T. Griffero, Dal bello all’atmosferico: un’estetica «dal punto di vista pragmatico», Introduzione a G. Böhme, Atmosfere, estasi, messe in scena. L’estetica come teoria generale della percezione (2001), trad. it. e cura di T. Griffero, Christian Marinotti Edizioni, Milano 2010, pp. 5-33: 9.
[iii] Ivi, pp. 11-2.
[iv] Ivi, p. 12.
[v] Alle radici neofenomenologiche dell’estetica patica Griffero dedica il quarto capitolo del suo Il pensiero dei sensi, nel quale chiarisce come la Nuova Fenomenologia, «ponendo al centro il corpo vissuto anziché l’incorporeo autoriferimento caro all’esistenzialismo, […] ridefinisce il filosofare come riflessione su che cosa si provi proprio-corporalmente nello spazio in cui ci si muove» (p. 129).
[vi] T. Griffero, Dal bello all’atmosferico, cit., p. 12.
[vii] T. Griffero, Atmosferologia. Estetica degli spazi emozionali, Laterza, Roma-Bari 2010, pp. 3-4.
[viii] T. Griffero, Quasi-cose. La realtà dei sentimenti, Bruno Mondadori, Milano 2013.
[ix] T. Griffero, Atmosferologia, cit., p. 7.
[x] A proposito di rimozione, Griffero dedica alcune pagine de Il pensiero dei sensi al “museo degli errori”, con ciò volendo fare riferimento alle rimozioni di cui è costellata la storia della filosofia occidentale e che un’eventuale estetica patico-neofenomenologica potrebbe contribuire a superare (cfr. pp. 134-40).
[xi] G. Böhme, Weltweisheit-Lebensform-Wissenschaft. Eine Einführung in die Philosophie, Suhrkamp, Frankfurt a.M., p. 189 (cit. in T. Griffero, Il pensiero dei sensi, cit., p. 40).
[xii] T. Griffero, Dal bello all’atmosferico, cit., p. 21.
[xiii] J. Soentgen, Die verdeckte Wirklichkeit. Einführung in die Neue Phänomenologie von Hermann Schmitz, Bouvier, Bonn 1998, p. 117 (cit. in T. Griffero, Il pensiero dei sensi, cit., p. 122).
(16 giungo 2016)