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Estetica e senso del gusto

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di GIACOMO FRONZI

Nel 1999 viene pubblicato Making Sense of Taste. Food and Philosophy di Carolyn Korsmeyer, volume che dà avvio a una nuova stagione di riflessione filosofico-estetica sul cibo e sul senso del gusto. Nel 2014, questo lavoro viene insignito del “Premio Internazionale d’Estetica”, conferito dalla Società Italiana d’Estetica, grazie al quale è ora disponibile in traduzione italiana. Nell’anno di Expo 2015, dedicato al tema Nutrire il pianeta. Energia per la vita, è interessante affrontare il tema dell’alimentazione anche dal punto di vista estetico e filosofico. Lo facciamo presentando il libro Il senso del gusto. Cibo e filosofia (Aesthetica Edizioni, Palermo 2015), del quale, per gentile concessione della casa editrice, pubblichiamo qui la prefazione all’edizione italiana.

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L’ARTICOLO IN PDF

Per millenni, la filosofia occidentale ha affrontato la questione (presente in molte tradizioni mistiche, religiose e spiritualistiche) del rapporto tra “mente” e “corpo”, tra “ragione” e “sensi”. Tale rapporto, in verità, si è spesso configurato in termini conflittuali, con un privilegiamento della parte razionale su quella corporea e sensoriale. Quest’ultima è stata ricollocata all’interno del dibattito filosofico soprattutto nel contesto della riflessione estetologica. Nonostante ciò, anche l’estetica, come disciplina che nasce in età moderna con la definizione baumgarteniana di scientia cognitionis sensitivae, è stata tendenzialmente orientata verso una gerarchizzazione dei sensi, da cui è conseguita un’operazione di emarginazione teorico-filosofica del senso del gusto. Per come diremo più avanti, paradossalmente, proprio il “gusto” è il termine utilizzato per dare corpo, vita e pregnanza filosofico-epistemologica all’estetica: di “gusto”, però, si è generalmente parlato in senso metaforico e non letterale. Ma riprendiamo il tema ricollocandolo nell’alveo dell’estetica, partendo dal suo “battesimo”.

Con il termine “estetica” – che deriva dall’aggettivo sostantivato greco aisthetiké –, in filosofia, indichiamo quella disciplina teorica che ha come propri oggetti privilegiati il bello e l’arte. Questa disciplina moderna e mondana – per come l’ha definita Benedetto Croce – viene definita «dottrina della conoscenza sensibile» da colui che per primo ha utilizzato il termine “estetica” nelle opere Meditationes philosophicae de nonnullis ad poema pertinentibus (1735)[1] e Aesthetica (1750-1758)[2], vale a dire Alexander Gottlieb Baumgarten.

Richiamandosi al pensiero di Gottfried W. Leibniz, per il quale la diversità di grado di «chiarezza» e «distinzione» è ciò che sta alla base della differenza tra «sensibilità» e «intelletto», Baumgarten sostiene che l’oggetto dell’arte è la rappresentazione chiara, intendendo con ciò la rappresentazione sensibile, ma perfetta. La conoscenza razionale, invece, ha come proprio oggetto le rappresentazioni distinte, vale a dire i concetti. L’estetica di Baumgarten, rispetto al problema dell’arte, si era caratterizzata come una «esplorazione del plesso di funzioni conoscitive e facoltà psicologiche chiamate in causa dall’esperienza estetica»[3]. Riflessioni di questo tipo erano centrate essenzialmente su due elementi: l’individuazione di una scala progressiva nell’ambito della conoscenza (riconoscendo il ruolo delle sensazioni) e lo studio del dominio dell’immaginazione.

Baumgarten, «attribuisce valore conoscitivo al modo sensibile in cui l’ingegno e l’acume colgono i rapporti di somiglianza e differenza fra le cose e i “bilanciamenti” interni costitutivi di un intero, individua nel gusto il modo in cui la sensibilità giudica dei rapporti d’ordine delle cose, cioè delle loro perfezioni, e soprattutto teorizza nella facoltà inventiva una modalità dell’immaginazione capace di dare forma a rappresentazioni composte governate da un principio organizzativo che permetta di ricondurre a unità gli elementi della rappresentazione»[4].

Rispetto a una forte e granitica tradizione filosofica, che si è divisa tra l’approccio kantiano (“teoria del puro sentire”) e quello hegeliano (“filosofia dell’arte”), l’attività filosofica di Carolyn Korsmeyer ha contribuito – per quel che riguarda temi e metodologie – a rinnovare e rivitalizzare una ricerca, quella estetologica[5], che negli ultimi anni ha ampliato il proprio raggio d’azione, spostando più in là i propri confini, e istituendo, accanto al tradizionale rapporto con l’arte, nuove relazioni con altri campi dell’attività umana e altri ambiti disciplinari. Potremmo dire che l’estetica ha acceso i riflettori su una realtà più vasta rispetto ai tradizionali settori delle arti e del paesaggio (sia naturale che urbano), avvicinandosi a una sorta di “filosofia della realtà quotidiana” che ha come proprio filtro una rinnovata Sinnlichkeit. Non è allora un caso che negli ultimi tempi si siano affacciate, con sempre maggior vigore, proposte teoriche «che pongono al centro del discorso filosofico tutte le possibilità e le potenzialità del corpo senziente, incluse tutte le esperienze considerate “basse”, ordinarie e persino volgari. È all’interno di questo quadro che l’interesse verso il gusto e il mangiare hanno trovato una nuova, positiva collocazione»[6].

Korsmeyer, per quel che riguarda lo specifico tema del rapporto tra filosofia e cibo, tra estetica e senso del gusto, si inserisce in un percorso tracciato in particolare (e non a caso) da filosofe donne, come Elizabeth Telfer, Lisa Heldke o Francesca Rigotti[7], assegnando però a questo plesso di questioni – come giustamente rileva Nicola Perullo, curatore de Il senso del gusto e uno dei principali studiosi italiani dell’estetica del cibo[8] – un’ampiezza e una profondità inedite, delle quali il volume che qui presentiamo ne è una vivida testimonianza.

Il senso del gusto è organizzato in sei capitoli e si presenta, per usare un’efficace immagine proposta da Donald W. Crawford, come una sorta di menu[9]: la prima portata prevede un’analisi filosofica e teorica del senso del gusto, inteso in modo letterale e come capacità discriminante (capp. I-II); la seconda portata consiste in una ricapitolazione sugli studi scientifici dedicati al senso del gusto, sempre nella direzione della critica ai pregiudizi filosofici relativi a tale senso (cap. III); abbiamo poi una portata principale nella quale vengono trattati i modi in cui il gusto assume e produce significato, quindi anche un significato cognitivo (cap. IV); e, infine, due dessert, che prevedono la presentazione di diverse modalità di rappresentazione del cibo nelle arti visive e nella letteratura, nonché il suo ruolo culturale e la sua funzione di “fare comunità” (capp. V-VI). Questa, senz’altro, non è l’unica modalità di approccio alla lettura e all’analisi del volume. Oltre alla canonica scansione in capitoli o a quella in “portate”, Giovanni Matteucci propone altri due “ritmi di lettura”.

Il primo, suggerito dall’Autrice, prevede l’abbinamento dei capitoli per coppie, cosicché i primi due capitoli rappresenterebbero l’analisi di come la tradizione filosofica si è approcciata al tema del cibo e dei cinque sensi, nonché alla loro gerarchizzazione. I capitoli terzo e quarto contribuirebbero a tratteggiare i confini e i contenuti di una nuova “filosofia del cibo”, mentre nei capitoli quinto e sesto si presenterebbero dei «casi di studio esemplari per un’indagine sui significati culturali del gusto e del cibo»[10].

Il secondo ritmo di lettura proposto da Matteucci scaturirebbe, invece, dall’ideale divisione del volume in due parti simmetriche: nella prima parte (capitoli I-III) «viene svolta la ricerca sull’atto del gusto in modo da mostrarne il relativo statuto di senso propriamente estetico, ben al di là della funzione di sensazione corporea piacevole», mentre nella seconda parte (capitoli IV-VI) viene presentata un’inchiesta «sul contenuto del gusto, ossia sul cibo in quanto simbolo e non solo strumento di piacere sensibile né mero mezzo di alimentazione»[11].

In effetti, quest’ultima scansione offre la possibilità di mettere in chiara evidenza come al centro della ricerca di Korsmeyer vi sia la coppia concettuale gusto-cibo, una coppia nella quale i due termini si presentano come inscindibilmente interrelati: «al gusto in quanto modalità estetico-percettiva particolare corrisponde il cibo in quanto oggetto simbolico particolare»[12]. Ma cerchiamo di scendere un po’ più nel dettaglio della trattazione proposta da Korsmeyer, a partire dall’esigenza di riabilitare filosoficamente un senso – quello del gusto – che, assieme all’olfatto e al tatto, è stato tradizionalmente relegato a un rango inferiore rispetto ai due sensi della vista e dell’udito, a partire da Platone e Aristotele (è da qui che prende avvio il capitolo I, intitolato «La gerarchia dei sensi»).

Fin dai tempi antichi, infatti, la filosofia ha proceduto con una gerarchizzazione dei sensi, che ha prodotto una dequalificazione cognitiva del senso del gusto e delle informazioni derivanti dall’esperienza corporea. Platone, ad esempio, prendendo le mosse dalla selezione dei sapori (amaro, dolce, agro, salato, acre, aspro e piccante) giunge comunque a sostenere che gli oggetti di percezione della lingua non producono effetti sull’anima intellettiva. Al contrario, su di essa possono avere effetti dannosi: «l’appetito è una forza potete, inarrestabile, che deve essere tenuta in catene come un animale selvatico, affinché non sovrasti il vivente nella sua interezza» (p. 38). Notevole differenza è posta da Platone tra il gusto e la vista, la quale viene presentata come uno strumento utilissimo, anzi, fondamentale nella conoscenza della realtà e, quindi, presupposto centrale per l’attività intellettuale e filosofica. Quest’ultima, per poter essere esperita e sviluppata fino in fondo, non può certo essere costretta nel basso recinto della dimensione corporea che, anzi, deve essere trascesa.

Con Aristotele, rileva Korsmeyer, l’analisi dei sensi si fa meno ascetica, meno idealistica, e più scientifico-pragmatica, rendendo più complessa la gerarchia dei sensi. Pur ammettendo che le anime hanno bisogno dei corpi e che la carne non può semplicemente essere derubricata a gabbia e ostacolo per l’anima razionale, e pur rilevando come il piacere rappresenti una dimensione importante delle virtù umane, anche lo Stagirita «concorda sul fatto che la conoscenza sia parte del vero scopo a cui tendono gli sforzi umani e, ancora una volta, la vista e l’udito vengono selezionati come i sensi più elevati e più importanti da un punto di vista conoscitivo» (pp. 42-3). A ciò si aggiunge anche la distinzione tra sensi di contatto (tatto e gusto), la cui attività coinvolge direttamente il corpo, e i sensi, come la vista e l’udito, che non richiedono un contatto corporeo, ma un medium separatore (la luce, per la vista, e l’aria, per il suono). L’olfatto viene collocato in una posizione intermedia: come vista e udito non è un senso di contatto, ma, a differenza di questi due sensi, non contribuisce allo sviluppo della razionalità. Aristotele considera qualitativamente superiori le informazioni derivanti dal senso della vista, in quanto essa rende disponibili maggiori aspetti della “forma” di un oggetto intero rispetto agli altri sensi. Ma nella gerarchia dei sensi, alla vista segue l’udito, poiché ambedue i sensi, essendo “meno corporei”, sono più oggettivi e spostano l’attenzione verso il mondo esterno, anziché concentrarla sulla condizione soggettiva del percipiente. In virtù di ciò, «sono proprio questi sensi superiori i più importanti per lo sviluppo cognitivo dell’uomo, ed essi rappresentano le principali fonti di alimentazione sul piano sensoriale per la facoltà che è propria unicamente dell’uomo: l’intelletto» (p. 48).

In questa classificazione dei sensi, rileva Korsmeyer, a un certo punto si innesta un altro tema (caro, peraltro, alla filosofa americana): quello del genere. Alcuni sensi, infatti, iniziano a essere considerati come fondamentali per lo sviluppo di tratti assegnati al carattere maschile, mentre altri vengono considerati come femminili. E questo non perché si suppone che il funzionamento dei sensi presenti delle differenze tra maschi e femmine, ma perché «le virtù e i risultati propri dei sensi a distanza vengono considerati maschili in base al contributo che offrono allo sviluppo della natura razionale» (p. 57). A questo punto, alla questione relativa alla gerarchia dei sensi si aggiunge quell’insieme di analogie e parallelismi in virtù dei quali le donne vengono associate ai sensi inferiori e agli aspetti meno razionali. Questo processo di abbinamento è avvenuto secondo due modalità: o il collegamento tra le donne e un senso come quello del tatto ha fatto sì che questo venisse poi dequalificato e denigrato oppure, più probabilmente – secondo Korsmeyer –, il riconoscere un valore inferiore ai sensi corporei ha prodotto il loro collegamento alla dimensione femminile. Accade allora che se la preparazione dei pasti è un’attività che coinvolge le donne o gli schiavi, allora tutto ciò che è relativo a tale attività sarà da considerare di scarsa rilevanza e non suscettibile di attenzione, men che mai teorico-filosofica. Fatta questa precisazione sul peso che le considerazioni di genere possono aver avuto sui contenuti e le modalità della discussione filosofica tradizionale, Korsmeyer chiude il primo capitolo rilevando come la filosofia abbia mostrato di contenere alcune crepe, omissioni e distorsioni, «che hanno portato la teoria a svilupparsi secondo modalità che trascurano credenze e pratiche importanti e che ignorano i valori viventi» (p. 62). Una di queste crepe è costituita proprio dalla mancata trattazione teorica del territorio del gusto, il quale, si chiede retoricamente Korsmeyer, davvero è così privo di aspetti filosofici interessanti completamente suoi?

Per rispondere a questa domanda, la filosofa americana, nel capitolo II («Filosofie del gusto: sensi estetici e non estetici»), procede con la sua trattazione, mettendo ora al centro dell’analisi la distinzione tra “sensi estetici” e “sensi non estetici”. L’uso del termine “gusto”, sostiene Korsmeyer, ha del paradossale: se, per un verso, il termine è stato lungamente utilizzato per fare riferimento a un’abilità (o a una facoltà) relativa alla possibilità di fare distinzioni e valutazioni di tipo estetico, per altro verso, esso, in merito al suo senso letterale, è stato di fatto escluso dalle teorie del gusto elaborate in ambito filosofico dall’Illuminismo in poi. Il senso del gusto, rispetto agli altri sensi, offre al linguaggio filosofico una terminologia e un lessico più idonei per discutere di bellezza, discernimento e apprezzamento estetico, ma al contempo viene, se considerato in senso letterale come “palato”, espunto dal discorso filosofico. Cosicché, alla distinzione tra sensi superiori (o a distanza) e sensi inferiori (corporei) si aggiunge l’ulteriore distinzione tra sensi estetici e sensi non estetici. Da questa classificazione deriva anche la parallela differenziazione tra esperienze sensibili che consentono sviluppo di forme artistiche ed esperienze sensibili che non lo consentono (p. 63).

Il primo passaggio compiuto da Korsmeyer è soffermarsi sul doppio utilizzo del termine “gusto” e sul relativo doppio significato che esso assume per la ricerca filosofica: letterale e analogico. Per quel che riguarda lo sviluppo e il progresso del discorso estetico, a un certo momento il senso del gusto (che da ora la filosofa americana indica con la lettera “g” minuscola, per differenziarlo dal gusto estetico per come è stato trattato filosoficamente, indicato con la lettera “G” maiuscola) viene affiancato al Gusto estetico, giacché, a differenza degli altri quattro sensi, esso pare prestarsi meglio per l’impiego in contesti di tipo estetico. «Mentre gli esempi relativi all’apprensione della bellezza sono spesso tratti dall’esperienza visiva […], l’effettiva operazione alla base della reazione di apprezzamento viene paragonata all’assaporamento di un gusto, nel quale percezione e piacere si fondono insieme» (p. 65). Ecco che il gusto si pone come la più importante fonte di analogia attraverso cui spiegare apprensione e giudizio estetici. Questo è accaduto con l’abate Jean-Baptiste Du Bos, con Voltaire, con Louis de Jaucourt o con David Hume (sul quale, in particolare, la filosofa americana si sofferma alle pp. 77-79). Nonostante questi esordi positivi, l’estetica europea mette da parte il gusto inteso in senso letterale, in particolare perché in tale contesto teorico il “Gusto” va assumendo un significato teorico rispetto al quale il “gusto”, caratterizzato da un altissimo grado di soggettività, pare filosoficamente meno solido. In qualche modo, la separazione tra “Gusto” e “gusto” si consuma sul terreno della dialettica oggettività-soggettività: i giudizi relativi alla bellezza e ai valori artistici ambiscono a un’universalità e a una condivisione che le reazioni soggettive legate al senso del gusto letterale non possono garantire. Inoltre, il giudizio di Gusto si presenta come un giudizio sulla bellezza di un oggetto nella misura in cui esso procura piacere o dispiacere, in modo disinteressato. Tale disinteresse, pur non garantendo il consenso attorno al giudizio di Gusto (nel caso di Kant, questa garanzia sarebbe fornita dal sensus communis), rappresenta tuttavia «un prerequisito per la possibilità di un’ideale convergenza dei giudizi di Gusto e di un consenso tra coloro che arrivano a sviluppare una sensibilità estetica raffinata» (p. 75). In particolare con Kant (a cui sono dedicate le pp. 79-85), il giudizio di Gusto acquisisce un carattere di universalità e disinteresse che inevitabilmente esclude i piaceri corporei e, pertanto, relega quelle del palato ad attività pratiche connesse a interessi individuali e personali. L’esito di questo processo di separazione (graduale e non del tutto chiaro, precisa Korsmeyer) dei due sensi, sarà che le qualità del gusto in senso letterale saranno considerate nient’affatto rilevanti dal punto di vista filosofico, pur tuttavia le analogie continueranno a essere usate per caratterizzare il fenomeno della discriminazione estetica.

Un ulteriore colpo inferto al senso del gusto letterale proviene da Hegel, il quale esclude categoricamente il gusto e il cibo (così come anche la natura e il paesaggio) dal mondo dell’arte e, quindi, da ogni tipo di valutazione estetica. È evidente che se per Hegel il bello si determina come la parvenza sensibile dell’idea e se l’arte fa riferimento ai due sensi teoretici della vista e dell’udito, restano nettamente esclusi dal godimento artistico gli altri tre sensi, collocati in una cornice pratica.

A questo punto dell’analisi, Korsmeyer introduce anche un motivo di tipo sociologico, rilevando come nella trattazione prodotta dalla filosofia europea settecentesca e ottocentesca vi fosse un certo grado di “elitarietà” tipica di una classe agiata, privilegiata, colta ed educata, assunta come sintesi e rappresentante di un’umanità molto più ideale che reale. In effetti, prosegue la Korsmeyer, in riferimento a Kant, ad esempio, è stato notato come l’atteggiamento disimpegnato e disinteressato richiesto dal suo giudizio di Gusto «raffiguri un nobile, elevato isolamento che, in realtà, non costituirebbe una possibilità universale ma un privilegio a disposizione solo di coloro che occupano serenamente una posizione privilegiata sul piano sociale, all’interno di un gruppo dominante e rispettato» (p. 89). A questi rilievi si aggancia la forte critica proposta da Pierre Bourdieu ne La distinzione. Critica sociale del gusto (1979)[13], il quale sostiene che dietro le giustificazioni settecentesche dell’idea di una regola del Gusto universale vi fosse, in realtà, una celata egemonia di una classe capace di regolare i valori di dominio e sottomissione nelle colte società europee. Lungo questa linea, Bourdieu – rileva Korsmeyer – giunge a superare «le distinzioni fra arti elevate e popolari, fra godimento estetico di tipo contemplativo e piaceri sensibili, fra apprezzamento dell’arte e soddisfazione legata al cibo, e – implicitamente – fra sensi estetici e non estetici» (p. 90). Se questa sembra essere una piattaforma comune anche alle analisi di Korsmeyer, quest’ultima, in verità, rileva come vi sia un punto fondamentale in cui la trattazione di Bourdieu si differenzia in modo definitivo. Il filosofo francese «insinua che la filosofia, in generale, costituisca un’impresa infondata, basata sulla finzione della ricerca pura e contemplativa». Per contro, la filosofa americana è interessata ad «argomentare a favore del potenziale estetico di cui è dotato il cibo e delle capacità discriminative proprie del senso del gusto», convinta che «ricondurre le belle arti e la cucina a un’unica categoria rappresenta un errore non meno grande che elevare il cibo ad arte bella» (p. 92). Si tratta, evidentemente, di un’impresa teorica complessa e problematica quella che prevede un’indagine sul gusto in senso letterale che possa procedere dritta «al margine della teoria ufficiale», mantenendosi prossima alla tradizione filosofica ma, allo stesso tempo, riuscendo ad aprire sentieri capaci di far emergere gli elementi distintivi del mangiare e del gustare. Il passo successivo, nel percorso individuato e tracciato da Korsmeyer, è gettare uno sguardo sugli studi scientifici compiuti sul senso del gusto. È questo il tema al centro del capitolo III, intitolato «La scienza del gusto», nel quale – come scrive l’Autrice –, in virtù del fatto che si tratta di un ambito disciplinare diverso da quello filosofico, sono presenti alcuni errori e sono esposte descrizioni che, a distanza di oltre quindici anni dalla pubblicazione del volume in edizione originale, risultano oggi obsolete. Tuttavia, queste pagine contribuiscono ad arricchire e rinvigorire questa appassionata difesa del senso del gusto, attraverso la descrizione del modo in cui funziona questo gusto, l’anatomia della lingua e la chimica del gusto (pp. 99-101) e il superamento di posizioni atte a denigrare il gusto. Rispetto a quest’ultimo problema, Korsmeyer si impegna a criticare tre tipi di asserti ai quali sono riconducibili le valutazioni negative sul senso del gusto: a) esistono effettivamente soltanto quattro sapori (dolce, salato, acido e amaro), per cui l’estensione e la varietà del gusti è limitata; b) il gusto è “povero”, dal momento che alla percezione della gran parte dei sapori contribuirebbe l’olfatto; c) gusto e olfatto sarebbero sensi “primitivi” (pp. 101-114).

L’analisi di Korsmeyer prosegue con fermezza lungo il percorso di questa sua critica del senso del gusto, volta – come ormai sappiamo – a collocare la questione del cibo e dell’alimentazione all’interno di una cornice teorica e filosofica, ora riprendendo uno dei temi che hanno relegato il senso del gusto a un livello inferiore rispetto ad altri sensi: la sua eccessiva soggettività. A tal riguardo, Korsmeyer si chiede se esiste qualcosa, relativamente ai piaceri del gusto, che possa essere considerato “universale” oppure se tali preferenze sono tutte inevitabilmente variabili. Attraverso l’individuazione di sei categorie che secondo la filosofa rientrano nella caratterizzazione delle esperienze di gusto (Body, Hunger, Culture, Tongue, Object e Pleasure), l’Autrice disegna quella che Matteucci ha definito una «compagine relazionale» che «definisce un ambito che eccede di gran lunga nutrizione e nutrimento»[14], contribuendo a rendere il cibo uno strumento in grado di attivare un’esperienza con una connotazione conoscitiva. Questo accade perché – negando le tesi secondo le quali il gusto sarebbe un senso che proietta il soggetto all’interno anziché all’esterno di sé – il gusto ha anche un suo lato oggettivo, che emerge nel momento in cui si accetta l’idea che esso si rivolge verso il mondo esterno, acquisendo così una capacità referenziale, generatrice di sensi e di significati. L’aver dichiarato il gusto come un senso non meramente soggettivo è anche alla base del tentativo di considerarlo come una «modalità di discriminazione estetica».

Korsmeyer dedica il capitolo IV («Il significato del gusto e il gusto del significato») al tema del potenziale referenziale del gusto, ponendo una domanda, a questo punto, del tutto fondamentale: le esperienze di gusto possono essere considerate autentiche esperienze estetiche?, alla quale se ne affianca un’altra, relativa allo status del cibo come arte (non già a espressioni linguistiche del tipo “arte culinaria”). Rispondere a queste domande significa, per Korsmeyer, giungere a riconoscere che gran parte dell’importanza che si attribuisce al cibo è di natura cognitiva e che esso ha una funzione simbolica che va molto di là della forma più sofisticata di gusto. Korsmeyer sa che per dimostrare la rilevanza estetica del senso del gusto deve rispondere ad alcune obiezioni, in particolare due: 1. l’esperienza del palato non è una tipologia che può rientrare nella sfera qualificabile come “estetica”; 2. quella che potrebbe definirsi “logica” del gusto differisce da quella dei veri giudizi estetici. Attraverso una preliminare discussione delle tesi di George Santayana, E. Telfer, David Prall, Frank Sibley, Mary Douglas e Roger Shiner, Korsmeyer giunge al cuore della propria difficile impresa intellettuale, investigando la possibilità di una dimensione cognitiva del gusto e del cibo.

Tale questione – che rappresenta probabilmente le fondamenta di tutto l’impianto di Korsmeyer – poggia solidamente sulla teoria cognitivista dell’arte espressa da Nelson Goodman ne I linguaggi dell’arte[15]. Al centro delle argomentazioni goodmaniane e del suo approccio cognitivista c’è la tesi per cui le opere d’arte vanno intese come sistemi di significato che svolgono funzioni cognitive evidenti. E, secondo Korsmeyer, il modo in cui Goodman «riflette sui simboli e sulle loro caratteristiche estetiche riesce a fornire spunti che risultano applicabili anche al cibo» (p. 149). Dovendo in questa sede presentare il volume, non c’è spazio per approfondire criticamente l’applicazione che fa Korsmeyer delle tesi goodmaniane, applicazione che comunque lascia emergere qualche motivo di perplessità. Ad ogni modo, la filosofa americana recupera l’approccio di Goodman, il quale non intende delineare le condizioni che sono necessarie e sufficienti per poter definire l’«estetico», ma individuare i “sintomi” dell’estetico. A partire da ciò, Korsmeyer cerca di argomentare come il cibo riesca a «soddisfare tutte le tipologie simboliche di Goodman: rappresentazione, espressione ed esemplificazione». Avremo, così, il «cibo rappresentativo», vale a dire quello che «viene realizzato in modo da apparire come qualcosa d’altro rispetto a se stesso» (uovo di Pasqua, agnellini di burro, omini al pan di zenzero, e così via). Si tratterebbe di tutto ciò che ingeriamo che rappresenta («in un senso o nell’altro») qualcosa di diverso da sé. I croissant, ad esempio, inventati a Vienna, nel 1683, e realizzati a forma di mezzaluna per celebrare la vittoria sull’Islam, indicano «chiaramente come sussista un facile meccanismo di scambio fra cibo e significati sociali condivisi» (p. 155). Korsmeyer precisa anche che le tipologie di rappresentazione chiamate in causa dal cibo includono la denotazione e la rappresentazione-come. Nel primo caso, si tratterebbe di cibi che si riferiscono a qualcosa di reale o a un evento (come nel caso del croissant); nel secondo caso, invece, si tratterebbe di cibi la cui forma non si riferisce ad altro di specifico. Per rafforzare questa tesi, Korsmeyer prende in esame il concetto goodmaniano di esemplificazione.

L’esemplificazione, nel caso del cibo, assume la seguente connotazione: «essa si riferisce a, e richiama l’attenzione su, alcune delle proprietà caratterizzanti ciò che mangiamo, presentandole in modo che se ne prenda nota e le si valuti in maniera particolare, oppure in modo che se ne goda attraverso l’esperienza diretta» (pp. 162-3). L’esemplificazione fa emergere, secondo Korsmeyer, due caratteristiche specifiche del cibo: 1. le proprietà particolari che vengono assaporate e godute nei cibi; 2 le proprietà implicite acquisite dal cibo allorché esso occupa un posto particolare nel ritmo dell’alimentazione rappresentato dagli orari dei pasti (p. 167). A ciò, Korsmeyer aggiunge un altro tassello: la proprietà espressiva. Un cibo può essere considerato espressivo nella misura in cui esso esprime proprietà in virtù di circostanze tradizionali o abituali relative alla loro preparazione (ibid.).

La conclusione alla quale perviene la filosofa americana è che, «in un modo o nell’altro, praticamente ogni esperienza alimentare è partecipe di almeno uno dei sistemi simbolici resi noti dall’analisi di Goodman» (p. 172), fino ad arrivare alla tipologia di pasto particolarmente ricca di significato, e cioè il pasto cerimoniale e rituale. In questo caso, il cibo raggiunge forse il grado più elevato di distanza dalla sua funzione originaria, legata al nutrimento e alla sopravvivenza biologica, nella misura in cui si tratta di pasti la cui assenza non pregiudicherebbe la sopravvivenza.

L’applicazione che fa Korsmeyer dell’approccio cognitivista di Goodman prosegue con una precisazione di particolare importanza, relativa al rapporto tra cibo e opere d’arte: il fatto che il primo soddisfi le proprietà che Goodman attribuisce alle seconde può legittimare l’affermazione della equiparazione del cibo all’opera d’arte? Korsmeyer è convinta che difendere il valore teorico del cibo «non implica in alcun modo che si debbano negare le discontinuità esistenti fra le pietanze e le opere d’arte» (p. 178). Come a dire: evidenziare le importanti affinità che emergono dall’analisi del cibo svolta con gli stessi strumenti con i quali Goodman analizza le opere d’arte non significa considerare cibo e belle arti assimilabili l’uno alle altre. A questo riguardo, Korsmeyer rileva come vi siano almeno due importanti elementi di discontinuità far cibi e belle arti: 1. le funzioni estetiche del cibo sono eccedenti rispetto alle qualità proprie del cibo in sé; 2. il cibo e l’arte non hanno storie e tradizioni che procedono in maniera parallela (p. 179).

Come già detto in apertura, gli ultimi due capitoli («L’appetito visivo: rappresentare il gusto e il cibo» e «Narrative dell’alimentazione»), per dirla con Eco, sono delle piacevoli e interessanti passeggiate in alcuni boschi rappresentazionali e narrativi che vanno dagli arazzi delle Fiandre di fine Quattrocento all’arte di Jan Bruegel il Vecchio, dai bodegón di Juan Sánchez y Cotán ai dipinti di Jehan Georges Vibert e al bue macellato di Chaim Soutine, ma ancora da William Shakespeare a Joseph Conrad, da Herman Melville a Theodore Acland Harper fino a Karen Blixen e Virgina Woolf. Il senso della scelta di chiudere il volume con una lunga parte dedicata al cibo rappresentato nelle arti figurative e raccontato nelle opere narrative risiede nella convinzione che focalizzare l’attenzione su come il senso del gusto sia stato trattato nelle arti rappresenti un’ulteriore e significativa esplorazione delle sue dimensioni cognitive («sistemi di significazione o di creazione di significato»). Talune rappresentazioni e certe narrazioni rimarcano e rilanciano una «semantica del gusto» che, pur avendo attraversato la storia umana, costituisce, secondo Carolyn Korsmeyer, un tema con il quale l’estetica deve confrontarsi, soprattutto in una fase in cui essa ha ampliato il proprio spazio d’azione e d’applicazione. In questo senso, Korsmeyer ritiene necessario considerare cibi e alimentazione come elementi che possono contribuire a sottolineare – con l’ausilio della consapevolezza filosofica – «il ruolo rivestito dall’esperienza corporea nella conoscenza, nella sfera della valutazione e nei nostri rapporti estetici con la realtà. L’esperienza del gustare ci conduce fino al cuore di questi fenomeni, fino alle loro dimensioni e ai loro aspetti più intimi» (p. 33).

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Prefazione all’edizione italiana di Il senso del gusto

di Carolyn Korsmeyer

Nei quindici anni trascorsi dalla prima edizione di questo libro, è stata prestata una notevole attenzione in campo filosofico ai cibi e alle bevande. Nel periodo in cui lavorai alla stesura del libro, però, uno studio di questo tipo rappresentò una presa di distanza dal tipo di questioni di cui si occupano abitualmente i filosofi, e questo persino facendo riferimento a una specifica disciplina filosofica, come l’estetica, i cui testi fondativi fanno ampiamente uso del termine “gusto”. Mi sono spesso sentita rivolgere la domanda su cosa abbia spinto me, cioè una filosofa, a intraprendere uno studio sul gusto (inteso in senso letterale) e sui suoi oggetti, vale a dire alimenti e bevande. In prima istanza, si trattò semplicemente di un senso di stanchezza nei riguardi della concezione ben consolidata secondo cui soltanto la vista e l’udito sarebbero sensi veramente “estetici”. A partire da qui, decisi di avventurarmi in un’analisi del senso che era stato eletto da sempre a metafora-guida per la caratterizzazione della percezione e della capacità di operare distinzioni in relazione alle opere d’arte e alla natura: cioè, decisi di avventurarmi in un’analisi del gusto. Non ci volle molto perché mi rendessi conto di come questo stesso senso corporeo sia molto complesso e sottile, ben al di là di quanto abbia ritenuto la filosofia che, tradizionalmente, gli ha soltanto opposto un rifiuto. Vorrei anche sottolineare l’importanza rivestita per questo tipo di analisi dalle ricerche condotte nei due decenni precedenti nell’ambito del femminismo, ricerche che hanno favorito lo spostamento dell’attenzione su argomenti diversi e che hanno costituito una sfida alla filosofia affinché ampliasse i propri obiettivi e prendesse in esame ambiti che erano stati solitamente bollati come “non filosofici”. L’insieme di queste critiche ha portato a mettere in discussione gli scopi stessi di questo venerando campo di studi e ha spianato la strada a quei filosofi che hanno ritenuto opportuno soffermarsi su tematiche che, per lungo tempo, erano state considerate fuori dalla loro orbita.

Scrivere questo libro fu straordinariamente divertente. Per sviluppare questo progetto dovetti confrontarmi con altri studiosi e imparare molto da loro, nonché ampliare le mie ricerche ad ambiti che si collocavano al di fuori delle mie abituali prospettive di studio. Non è possibile intraprendere in maniera accurata lo studio di attività così complesse, quali sono senza dubbio il gustare, il mangiare e il bere, rimanendo all’interno dell’orizzonte di un’unica disciplina accademica. Pertanto, dovetti raccogliere materiale diverso proveniente da ambiti come la storia, la psicologia, l’arte, la letteratura e l’antropologia. La ricerca interdisciplinare è tanto stimolante quanto rischiosa, dal momento che è estremamente facile fare un passo falso quando ci si muove in campi diversi dal proprio. Nel mio libro, in effetti, è presente qualche errore (in particolare nel terzo capitolo, che prende in esame la fisiologia del senso del gusto). Gli scienziati si renderanno conto, ad esempio, che alcune descrizioni dei recettori di gusto presenti sulla lingua sono ormai obsolete e che certe tipologie di sapore che venivano timidamente suggerite a quell’epoca (come, ad esempio, il grasso o il saporito) nel frattempo sono state ampiamente accettate nell’analisi dei sapori fondamentali. Mi aspetto quindi che, man mano che la ricerca andrà avanti in questo campo di studi (per lungo tempo soggetto a un mero rifiuto), la nostra comprensione del senso del gusto subirà ulteriori cambiamenti, nonostante mi auguri ovviamente che l’interpretazione filosofica generale che ho presentato in questo libro possa essere in grado di reggere a tali aggiustamenti.

Nel mio libro avanzo una difesa del gusto, proponendo di consideralo come un senso estetico, e sostengo la tesi secondo cui alimenti e bevande, per molti aspetti, sono in grado di conseguire il medesimo tipo di significato simbolico o cognitivo che è proprio di quelle che concepiamo abitualmente come opere d’arte. Al contempo, però, non propongo di inserire pasti e pietanze fra le forme artistiche, perlomeno se ci limitiamo a parlare di belle arti. Vi sono molti studiosi che si trovano in disaccordo con la mia posizione e che avanzano valide controargomentazioni che fanno leva sulla creatività insita nella preparazione dei cibi, sulla expertise che quest’ultima richiede, oppure sulla rilevanza culturale degli alimenti e delle bevande. Ciononostante, continuo a essere poco incline a definire la cucina come un’arte bella, e non perché io la reputi in qualche modo “inferiore” o meno importante delle arti consolidate, bensì perché si tratta di una produzione culturale di natura diversa. Di solito, chi difende la tesi secondo cui il cibo sarebbe un’arte ha in mente una cucina sofisticata e per intenditori, i cui prodotti in effetti prevedono componenti quali la novità, la creatività e l’ampliamento dei piaceri di gusto dell’intenditore. Sotto questo punto di vista, posso dirmi d’accordo sul fatto che l’arte culinaria condivida con le belle arti alcuni obiettivi comuni e anch’io, in effetti, ammetto l’esistenza di una sovrapposizione fra le belle arti e la cucina raffinata e di una convergenza fra i mondi dell’arte e della culinaria. Ma se è così, per quale motivo allora insistere nell’escludere la preparazione dei cibi, intesa in senso generale, dalla categoria dell’arte?

Se si concepisce la parola “arte” come indicante semplicemente “un prodotto culturale importante”, allora posso concedere che la cucina rappresenti una forma d’arte. Tuttavia, a dispetto delle sfide che il concetto di “arte bella” ha dovuto fronteggiare recentemente (sfide provenienti sia dai teorici che dagli stessi artisti), esiste ancora un confine fra l’arte e la vita quotidiana, un confine che il cibo è necessariamente costretto a oltrepassare. Mangiamo tutti i giorni (se apparteniamo alla cerchia dei fortunati che ne hanno la possibilità) e, in effetti, siamo costretti a farlo, se vogliamo mantenerci in vita e in salute. L’alimentazione è dotata di un valore strumentale che è immediato e, alcune volte, persino rozzo, animalesco. Questa funzione pratica, però, non riduce in alcun modo la rilevanza estetica del cibo, il quale possiede determinati aspetti di tipo estetico che appaiono altrettanto importanti nella forma ordinaria che esso assume nella vita quotidiana e nella forma particolare che può essergli conferita dal lavoro accurato di uno chef. Per questo motivo, sebbene i mondi dell’arte e della culinaria tendano a volte a mescolarsi e a confondersi, entrambi conseguono comunque la propria rilevanza estetica in maniera indipendente l’uno dall’altro. A ogni modo, non ho dubbi che la mia tesi continuerà ad apparire controversa ad alcuni studiosi e posso aspettarmi, quindi, che in futuro continuerà a esserci un dibattito produttivo su tali questioni.

Questa nuova edizione di Il senso al gusto. Cibo e filosofia non sarebbe mai stata possibile senza gli sforzi e le energie di molte persone. Vorrei ringraziare, in primo luogo, la Società Italiana d’Estetica per avermi conferito il Premio Internazionale d’Estetica 2014, dal quale è scaturita la presente traduzione. Sono particolarmente grata, poi, al professor Nicola Perullo e al dottor Stefano Marino per aver svolto con grande attenzione, rispettivamente, il lavoro di curatela e di traduzione, e per il loro supporto e la loro collaborazione in varie fasi del processo di pubblicazione del libro. Mi sento profondamente onorata per il fatto di aver ricevuto questo Premio e la mia gratitudine va a tutti coloro che lo hanno reso possibile e vi hanno contribuito.

* Nella fotografia, Carolyn Korsmeyer tiene una lectio magistralis dal titolo Incontri estetici e risposte corporee: rivisitare il gusto, in occasione del XII Convegno nazionale della Società Italiana d’Estetica (Arcavacata di Rende, 7-8 maggio 2014), durante il quale le è stato conferito il “Premio Internazionale d’Estetica”.

NOTE

[1]A.G. Baumgarten, Meditationes philosophicae de nonnullis ad poema pertinentibus (Meditazioni filosofiche su alcuni aspetti del poema), Halle 1735; trad. it. di F. Piselli, Riflessioni sul testo poetico, presentaz. di R. Assunto, Aesthetica Edizioni, Palermo 1985; nuova ed. col titolo Riflessioni sulla poesia, a cura di P. Pimpinella e S. Tedesco, Aesthetica Edizioni, Palermo 1999.

[2]A.G. Baumgarten, Aesthetica, Frankfurt a.d. Oder 1750-1758, rist. an. Hildesheim 1986; trad. it. di F. Piselli, Estetica, Vita e Pensiero, Milano 1992; nuova ed. a cura di S. Tedesco, L’Estetica, trad. it. di F. Caparrotta, A. Li Vigni, S. Tedesco, consulenza scient. e revisione di E. Romano, Aesthetica Edizioni, Palermo 2000.

[3]A. Serravezza, Le radici dell’estetica musicale, in P. Gozza, A. Serravezza, Estetica e musica. L’origine di un incontro, Clueb, Bologna 2004, p. 87.

[4]S. Tedesco, L’estetica di Baumgarten, Aesthetica Preprint «Supplementa», Centro Internazionale Studi di Estetica, Palermo 2000, p. 26.

[5]Per un riscontro, sarà sufficiente gettare uno sguardo su parte della produzione di C. Korsmeyer: Aesthetics in Feminist Perspective, ed. by C. Korsmeyer e H. Hein, Indiana University Press, Bloomington 1993; Feminism and Tradition in Aesthetics, ed. by P. Zeglin Brand and C. Korsmeyer, Pennsylvania State University Press, University Park 1995; Aesthetics: The Big Questions, ed. by C. Korsmeyer, Blackwell, Oxford 1998; The Taste Culture Reader: Experiecing Food and Drink, ed. by C. Korsmeyer, Berg, Oxford-New York 2005; Gender and Aesthetics: An Introduction, Routledge, New York-London 2004; Savoring Disgust: The Foul and the Fair in Aesthetics, Oxford University Press, New York-Oxford 2011.

[6]N. Perullo, Presentazione di C. Korsmeyer, Il senso del gusto. Cibo e filosofia, a cura di N. Perullo, trad. it. di S. Marino, Aesthetica Edizioni, Palermo 2015, pp. 7-12: 8-9.

[7]Cfr. E. Telfer, Food for Thought: Philosophy and Food, Routledge, London 1996; L. Heldke, Cooking, Eating, Thinking: Transformative Philosophies of Food, Indiana University Press, Bloomington 1992; F. Rigotti, La filosofia in cucina. Piccola critica della ragion culinaria, il Mulino, Bologna 1999; Id., Manifesto del cibo liscio. Per una nuova filosofia in cucina, Interlinea, Novara 2015.

[8]Di N. Perullo, cfr., in particolare, Per un’estetica del cibo, Aesthetica Preprint, Centro Internazionale Studi di Estetica, Palermo 2006; L'altro gusto. Scritti di estetica gastronomica, Ets, Pisa 2008; Il gusto come esperienza. Saggio di filosofia e estetica del cibo, Slow Food, Bra 2012; Cibo, estetica e arte. Convergenze tra filosofia, semiotica e storia, a cura di N. Perullo, Ets, Pisa 2014; La cucina è arte? Filosofia della passione culinaria, Carocci, Roma 2014.

[9]Cfr. D.W. Crawford, in «The Journal of Aesthetics and Art Criticism», Vol. 59, No. 4 (Autumn, 2001), pp. 421-423.

[10]G. Matteucci, Recensione di Carolyn Korsmeyer, Il senso del gusto. Cibo e filosofia, pronunciata in occasione del conferimento del Premio Internazionale d’Estetica 2014, nel corso del XIII Convegno Nazionale della Società Italiana d’Estetica, “Estetica fra saperi e sapori”, 27 e 28 marzo 2015, Milano, Palazzo Greppi, pp. 1-5: 1 (http://www.siestetica.it/download/MatteucciKor.pdf).

[11]Ivi, pp. 1-2.

[12]Ivi, p. 2.

[13]Cfr. P. Bourdieu, La distinzione. Critica sociale del gusto, a cura di M. Santoro, trad. it. di G. Viale, il Mulino, Bologna 2001.

[14]G. Matteucci, Recensione, cit., p. 3.

[15]Cfr. N. Goodman, I linguaggi dell’arte (1968), trad. it. di F. Brioschi, Il Saggiatore, Milano 2008.

(7 luglio 2015)


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