Quantcast
Channel: Il rasoio di Occam » estetica
Viewing all articles
Browse latest Browse all 14

Carlo Antoni, un filosofo liberista

$
0
0

carlo-antoni-499

di FRANCESCO POSTORINO

Pubblichiamo, per gentile concessione dell’autore e dell’editore, alcuni paragrafi del primo capitolo (dal titolo “Estetica”) del volume “Carlo Antoni. Un filosofo liberista”, di Francesco Postorino, prefazione di Serge Audier (pp. 162, euro 14), uscito di recente per Rubbettino editore.


L'articolo in pdf

Il buio anti-Estetico ai tempi del turbo-capitalismo

Questa interpretazione dell’Estetica di Carlo Antoni ci spinge ad intravedere un certo disagio dell’arte nella condizione contemporanea e che già Hegel segnala con acume nel suo celebre confronto tra lo spirito greco fondato sull’autenticità e le complesse esigenze dei moderni[1].

L’artista celebra la propria anima nella peculiare fondazione dell’arte attraverso lo scoprimento del suo segno distintivo, perciò il suo atto potrebbe culminare nel silenzio. Il silenzio non è il nulla, né «la preparazione responsabile delle parole da enunciare»[2], ma è già verso, come sa Henry David Thoreau nelle sue ricerche solitarie e come ben sappiamo ogni volta che la natura, con le sue mille voci[3], in un primo tempo ci invade col suo dipinto sempre nuovo e in seguito quasi ci obbliga al silenzio contemplativo. Il silenzio è il linguaggio dell’intimo e si ritrova già al di là del perturbamento.

Con apparente paradosso, si potrebbe dire che il silenzio non sta in silenzio. Non si ammutolisce, soverchiato dalla vera parola. Dai tempi della sofistica pre-socratica si cerca di anteporre il parlare estrinsecato alle ragioni del silenzio e così «diciamo troppe parole inutili», «suscitiamo frastuono intorno» quando invece dovremmo «apprezzare la virtù risanatrice, purificatrice del silenzio intromesso spesse volte nella nostra giornata»[4].

La comunicazione va incontro a due fattori, uno necessario e l’altro eventuale. Il primo è fondamentale, poiché in assenza del quale è impossibile che la comunicazione possa verificarsi e si tratta, ancora una volta, del linguaggio formato; l’altro, invece, consiste nella possibile esternazione del parlare ed appartiene ad un’altra dimensione, quella dell’empirico, dell’opportunità. La comunicazione esteriorizzata corrisponde dunque ad un elemento consequenziale all’atto comunicativo. Il silenzio medesimo sembra acquisire quel tratto necessario e sufficiente per la configurazione di un momento artistico.

Ora, il silenzio che non parla agli altri quando invece comunica al «se stesso», fugge dai giudizi moralistici, dalle prepotenze paternali di chi, parlando, crede di sapere e condanna come ingiusto l’atto del silenzio. Ma l’Estetica, ricorda Antoni, non è inferiore alla Morale, è solo distinta. L’Estetica non può essere accompagnata dal giudizio logico. Può, anzi deve permettere che in essa alberghino le critiche lette come compartecipazione emotiva all’evento interiorizzato.

Tuttavia, per quando riguarda la natura del silenzio, andrebbe precisato che esiste un vuoto di cui diffidare e che andrebbe meglio definito come il nulla, la non-parola. Se il silenzio comunica ed è già linguaggio, resistendo peraltro con la bellezza del gratuito alle insidie economicistiche oggi in voga, la non-parola (mai iniziata) mette a dura prova la stessa esistenza dell’Estetica.

Il non-dire perché non si ha nulla da dire, né agli altri né soprattutto a se stessi, e non tanto perché non si riesce a travalicare i recinti dell’oscurità nel senso finora indicato, ma in quanto manca il cominciamento del travaglio interiore, tutto ciò, a nostro avviso, rischierebbe la cancellazione − nel discorso crociano, sostenuto da Antoni − di una delle quattro forme dello spirito.

Antoni afferma che l’uomo comune, cioè colui che non sta facendo arte, passa dinanzi alle cose distratto e che la distrazione «non è assenza di attenzione, ma intensità che esclude tutto il resto»[5]. Era il 1924. Egli probabilmente non poteva immaginare l’accelerazione delle distrazioni mondane e tutte le involuzioni dell’uomo comune intenzionate ad annebbiare sempre di più le possibilità estetiche all’indomani del ventunesimo secolo.

Il conformismo generazionale, il dominio del virtuale e quello incontrastato della tecnica, i cicli produttivi di un capitale sregolato, il rafforzamento dell’universo economico a discapito di tutti gli altri ambiti inquinati dalla volontà di potenza e dalla deificazione del mercato, mettono in ginocchio, per dirla con Schiller[6], il «gioco» dell’arte, violentando i sentimenti maturati, anzi vietando fin da subito quei passaggi che dovrebbero condurre alla realizzazione idealistica dell’Estetica.

Il Gott ist tot, profetizzato da Nietzsche e scaturito dalla crisi istituzionale dell’epistéme[7], dissolve e continua ad annientare tutti i valori, anche e soprattutto il dono del gratuito disciplinato in modo creativo dal momento artistico. Se la delineazione dello spirito auspica la definizione storica di un individuo articolato nei momenti che lo compongono (Estetica, Logica, Economica, Etica) e tutti e quattro si riuniscono, sostiene Antoni, in ogni istante da lui vissuto, oggi accade, al contrario, che l’introduzione del nichilismo tenta di sopprimere lo svolgimento intellettuale della verità, infila seri colpi alla dimensione della moralità ed elogiando solo le virtù utilitarie nell’uomo, non può che scardinare l’ingenuità del valore estetico.

Va da sé che la netta supremazia dell’utile-vitale, dell’istinto non vagliato dalla ragione storica squalifichi la natura dell’individuo, fotografando così un’immagine riduzionista ed inquietante dell’essere umano.

Il Dio è morto, in effetti, segna la nascita di un uomo che esprime un funzionamento del tutto privo di un senso esistenziale[8]. L’individuo è già avvinghiato tra le logiche tecno-scientifiche, immischiato nelle confusioni giornaliere che lo rimpiccioliscono sempre di più, quasi a divenire uomo-macchina. La figura dell’automa corrisponde all’antitesi netta dell’artista. Questa tecnica, come insegna Walter Benjamin, ha provocato la «fine dell’esperienza» e persiste a contenerci in una nefasta continuità senza progetto, annientando l’atto iniziale, il nuovo, quella «singolarità» che, parafrasando Jean-Luc Nancy, consiste nell’«una sola volta, questa»[9].

Il ferimento di una singolarità non più attraversata dalle ragioni intuizionistiche professate con vigore da Schelling,  Pascal o Bergson, ma offesa dai circoli mercantili e dalle pianificazioni centralizzate della nuova Raison con le sue tecniche amministrative, segna il vuoto della non-parola, delegittima il silenzio e spalanca le porte alle oscurità del post-umanesimo.

Nell’attuale sistema neo-capitalistico, l’insicurezza primordiale degli stati d’animo lascia il primato all’immobilità di una «certezza sensibile» di hegeliana memoria che da un lato ripristina, in nuovi modi, il pericolo della spersonalizzazione dell’individuo, dall’altro lo rende un soggetto parlato dai nuovi mezzi funzionali del sapere scientifico. L’uomo odierno, infatti, dopo aver spento il fremito emotivo che lo attraversava, traduce il silenzio parlante in un vuoto parlato da una tecnica che non riesce più a gestire. Anzi, si potrebbe dire che quello che un tempo veniva etichettato come uno pseudoconcetto, il quale racchiudeva le attività utilitarie di comodo pratico compiute, per l’appunto, dalla scienza, adesso acquisterebbe un ruolo di primissimo piano nell’unico orizzonte di senso condiviso dall’uomo nichilista.

Il linguaggio manifestato sotto forma di poesia, di canto, di scultura, pare non rifletta più quella sicurezza, teorizzata da Croce[10] e da Antoni, che colpisce ciascuna individualità.

Le perversioni dell’utile sono sempre esistite e sempre si avranno, così come gli eccessi di dose morale e di logicità astraente, ma questa epoca molto particolare, in quanto assuefatta al dominio della tecnica, sconvolge gli spazi conoscitivi in cui è sparso il seme creativo dell’arte. In altri termini, la materia e la natura resistono allo spirito. Una prospettiva che si incontra ad esempio nella naturalizzazione del linguaggio, oppure nell’ingerenza linguistica della tecnica e della finanza globale.

Immerso nel circolo vizioso delle reti informatiche e rincorrendo senza pause le ultime trovate consumistiche, l’uomo contemporaneo svuota di senso il significato dell’arte. Si accentua la parte empirica del sentimento (l’istinto, la funzione vitalistica) e si indebolisce la ricchezza interiore educata allo spirito estetico. Si sviluppano gli scenari egoistici e l’atomismo, mentre si riducono le piccole verità raccolte nei gesti interpretativi e nell’immaginazione. Sopravanzano le tecniche del parlato e si cerca di eliminare quella voce parlante di indubbia superiorità che soggiorna nella calma del tempo e nei luoghi fanciulleschi del gratuito, non certo nei cicli produttivi dei modi di produzione capitalistici.

Il silenzio dell’uomo che difende e propugna la sua arte, o ancora quel senso poetico che corrisponde al linguaggio genuino[11], si oppone al vuoto interiore della condizione contemporanea.

Due fanciulli diversi (Antoni e Nietzsche)

Il fanciullo descritto da Antoni e da lui equiparato all’uomo che si fa artista, non è lo stesso fanciullo immaginato da Nietzsche nel suo Così parlo Zarathustra.

L’innocenza del primo tocca le sue radici nella curiosità verso l’ignoto e nuotando nelle acque ancora calde dell’inquietudine accoglie l’infinito discostandosi dal cattivo rumore della folla, allontanando dal suo vocabolario ogni vincolo, qualunque idea di confine. Questa fanciullezza dell’artista è contraria al nichilismo in quanto resiste alle ciniche declinazioni della volontà di potenza. Ci si riferisce ad un’innocenza non guastata dai cosiddetti bisogni primari o regolamentata dal canone empirico delle risorse scarse. Essa abita nel continuo questionare che alimenta il percorso dell’artista.

Il fanciullo innocente, tanto caro ai vangeli di Zarathustra, è invece restio ai dettami dell’intensità emotiva, chiuso alla prospettiva ideale della bellezza e nemico di ogni domanda.

Incastrato in una «ruota ruotante da sola»[12], questo fanciullo si rivela insensibile ai suoni dell’infinito, alle poetiche della gratuità e non mostra interesse verso le sfumature del reale[13]. Dal fanciullo di Nietzsche, inoltre, non trapelano segni di creatività. Egli è imprigionato in una ruota che non comunica.

Il fanciullo ammirato da Antoni scava nel profondo degli animi, disegna una viva parola intenta a definire il pianto di una donna o ad esempio il giocherellare di un cagnolino dispettoso, rifiuta le lamentele e la noia dell’uomo comune e trova ogni giorno stimoli per incanalare l’infinità nella sua immaginazione; mentre quello nietzscheano si addormenta nel vizio, adula gli elementi materiali che lo circondano e conosce fin troppo bene, come del resto gli storici e gli scienziati, la nitida distinzione fra il reale e le finzioni.

Il super-individuo, l’Ubermensch, o l’oltre-uomo di Nietzsche riflette l’innocenza di un fanciullo che non ha voce né titoli per poter sollevarsi dalla contingenza e il suo Sì innocente lo naturalizza a tal punto da sprofondare in un terreno affine alle catene di montaggio.

Il filologo tedesco pare abbia avuto la meglio con le sue formulazioni. L’uomo contemporaneo non ne vuole sapere di travagli interiori, non si rieduca al pensamento concettuale e non vuole kantianamente soccombere al tu devi. L’individuo, modellato dalle filosofie «decadentistiche»[14], chiude le porte ad ogni sapere, ad ogni legge e oscilla tra l’adesione ad una «chiacchiera»[15], ad una routine «che evita la novità, il rischio, l’avventura, la responsabilità»[16] e ad un’angoscia che lo metterebbe a contatto con il suo intrinseco, l’autentico, la «morte».

Spirito e natura

Con l’ingenuità, la buona fede di un infaticabile sognatore, è possibile rintracciare i primi segni di uno spirito che lotta contro la natura. La materia dell’arte, le impressioni, l’emergere di uno stato sensazionale non ancora purificato dalla legge del chiarimento, costituiscono il primo travaglio dello spirito.

La natura si riproduce nell’assenza dei nuovi inizi. Ma la prima completezza spirituale coincide con l’atto espressivo, con il peculiare raggiungimento della bellezza. Nella bellezza, nel silenzio, in quell’intuizione che rimuove le incertezze passionali contenute negli stadi inferiori, si può scorgere la prima vittoria sulla natura. Lo spirito non dovrebbe cogliere a priori l’intero, considerato che se la realtà è immediatamente spirito non ci sarebbe più nulla da spiritualizzare[17].

Ora è chiaro che non può essere convincente la distinzione che Antoni pone tra l’«espressione artistica» e l’«espressione comune». Pare che qui il Nostro dimentichi quel senso di democraticità che egli stesso patrocinava in merito all’arte, per giungere alla paradossale conclusione secondo cui è difficile sapere dove cominci l’una (artistica) e finisca l’altra (comune).

Inoltre, lo studioso triestino, dichiara in un primo tempo, e al pari di Croce[18], che fra le due attività estetiche non traspare alcuna differenza di intensità, ma le sue argomentazioni conducono in tutt’altra direzione; infatti, poco più tardi riferirà l’esatto contrario. Se si vuole prestare fede al processo di liberazione dall’oscurità non si può che avere sott’occhio un’unica espressione. L’espressione pronunciata a noi stessi, quale segno distintivo dopo segrete battaglie.

Il resto è natura, materia, bruttezze di vario tipo. Per questo occorre promuovere una distinzione di qualità e non di grado tra la bellezza pura e creativa dell’unico atto espressivo manifestato da chiunque e la riproduzione di un linguaggio naturalizzato.

Lo spirito, come sostiene questa volta Antoni, coincide con l’individuo, visto che ad esempio l’espressione è il ricavato infinitizzante di una creatività individuale; d’altra parte, l’individuo non è solo spirito.

Le sue bruttezze (si pensi alle spinoziane «passioni tristi»), le sue non-verità, il suo primitivo utilitarismo e soprattutto la sua immoralità sono natura. La bruttezza appartiene al mondo della natura, che è il mondo dell’uomo. Sono brutte le parole che abitano un confuso stato d’animo, le parole che non vivono, cioè quelle che anziché parlare, sono esse stesse parlate da qualcos’altro.

Gli avvocati-sofisti del periodo pre-socratico, i quali «soggiogavano gli uditori e li rendevano attoniti al loro fascino»[19], sfoderavano – dietro compensi in denaro − un lessico già preconfezionato, valevole per il bello e per il cattivo tempo, per un processo o per un altro, per un particolare imputato o per un altro. Il loro stile ai molti può apparire meraviglioso, persino giusto; eppure – seguendo questa linea interpretativa – si tratta di uno stile brutto, specie se paragonato a quello dell’avvocato Atticus Finch in Il buio oltre la siepe, che di fronte ad una giuria composta da razzisti bianchi, tutela con passione e chiarezze interiori un nero accusato ingiustamente; o se paragonato al più celebre I have a dream di Martin Luther King, e ancora all’arringa del procuratore Robert H. Jackson, recitata con sentimento kantiano in quel tribunale di Norimberga che ospitava interpreti e soldati di Auschwitz.

L’I have a dream di King è un grido interiore che parla, la formulazione del reato dei «crimini contro l’umanità», cara a Jackson, prima di fungere da trama all’interno di un luogo processuale o di costituire oggetto di discussione fra professori universitari, è anzitutto linguaggio creato.

Le parole e le lettere contenute a freddo in un dizionario non sono espressioni, come non è espressione un testo costituzionale, il quale può senz’altro prevedere una geniale architettura dei diritti individuali, ma se il concetto interpretativo della libertà non viene riscoperto ogni giorno nel proprio intimo in relazione alle insidie e alle prove mondane, qualunque Costituzione sarà lettera morta. Ogni norma costituzionale rischia il processo involutivo di naturalizzazione se l’individuo non prevale con convinzione sul dato formale in essa presente, ravvalorandola.

In conclusione, non può esistere una differenza di mera intensità tra le due espressioni in quanto sussiste uno slancio qualitativo che separa l’espressione dalle bruttezze della nature.

L’arte e l’empirico

Si è visto che l’arte, in Croce e in Antoni, coincide con l’espressione, con l’intuizione, con il linguaggio. La sua bellezza la si ritrova compiuta nell’elaborazione di un atto spirituale che eccede, in termini qualitativi, il sentimento non ancora disciplinato. L’arte non è filosofia.

Recitare il canto di Paolo e Francesca non significa rifletterci sopra con spirito storico e con esercizi concettuali. Gli strumenti adoperati dalla logica sono distinti dall’espressione.

L’arte non è neppure un’azione morale. La gratuità dell’arte non è il presupposto o l’effetto di un’opera di bontà, di giustizia. L’artista non risponde, nell’esercizio delle sue funzioni, alla dicotomia bene/male, giusto/ingiusto. Può compiere atti poco decorosi e nel frattempo appiccicare nomi a precipui stati d’animo. Può rubare ad altri, e parimenti essere rapito da un’immagine che sveglierà in lui un canto. Non sarà un santo, eppure meriterebbe in questi ultimi casi il titolo di artista. Un titolo, va ribadito, da non escludere e da non regalare a nessuno a priori.

Discorso particolare andrebbe fatto circa il rapporto tra l’arte e l’utile. Anche qui l’arte continua a presentare la sua autonomia e relativa indipendenza. L’arte, vale a dire, pur essendo autonoma, condiziona – attraverso la sua declinazione linguistica – le altre sfere, visto che per compiere un’attività di logica non si può archiviare il risultato estetico. Arte e logica esauriscono la conoscenza, la quale è indispensabile per produrre azioni. Così come queste ultime, che contribuiscono a determinare la storia in divenire, saranno necessarie per preparare il risveglio creativo dell’artista.

L’utile accompagna l’arte. Non consente di trasformarne la portata, arricchirne i contenuti, perché l’arte culmina nel momento espressivo, che è il momento dell’interiorità. Ciononostante, la componente utilitaria è decisiva in un punto ben preciso.

Quando si distingueva una comunicazione interiore (necessaria) da una esteriore (facoltativa), s’intendeva dire che la configurazione artistica permane in modo esauriente nell’atto di chiarezza interna, ma per essere a sua volta comunicata ad altri o riproposta a se stessi, sono indispensabili dei mezzi empirici (carta, penna, pianoforte, pittura, volontà di scrivere, ecc.) che confluiscono nel mondo naturale e che nel contempo rendono sociale, oggetto di dominio pubblico, la precedente e interiorizzata maturazione di un fatto estetico.

Occorre precisare che l’Antoni maturo corregge questo passaggio crociano affermando che lo strumento, sebbene possieda un significato prevalentemente tecnico, oltre a condizionare i modi dell’espressione, esso interviene in maniera determinante e concreta nella sintesi estetica vera e propria. Si direbbe che, entrando nella sintesi, esso perde il gretto carattere tecnico per acquistare la dignità di integrante motivo espressivo e quindi artistico[20].

Non si discosta da questa revisione Carlo Ludovico Ragghianti. Il grande critico d’arte, pur muovendosi nel solco del crocianesimo, non condivide la teoria della tecnica sviluppata da Croce, la quale, a suo dire, si riallaccerebbe al pensiero greco postsocratico, staccando l’esteriorizzazione, presunta come semplicemente materiale e generica, dalla concezione intuitiva o lirica[21].

Per Ragghianti, al pari dell’intellettuale triestino, il momento tecnico si rivela imprescindibile per la determinazione del fatto estetico.

In ogni modo, tornando alla generale impostazione crociana, accompagnare l’arte non significa confonderla con gli elementi che le girano attorno e che non dovrebbero acquisire portata spirituale o preponderante come si può riscontrare al contrario durante il periodo in cui regna, anche in Italia, il positivismo, vale a dire la radicalizzazione del metodo naturalistico. Un movimento poco speculativo che premia l’andamento filologico e, nella fattispecie, qualsiasi altra cosa che non sia la letteratura e la poesia[22].

NOTE

[1] Antoni scrive, nella sua lettura hegeliana, che l’arte per il filosofo di Stoccarda oramai è considerata come un vecchio ricordo in quanto non dispone più di quell’immediatezza, di quella vitalità, oppure di quell’efficacia «che aveva quando fioriva tra i greci. L’alta bellezza dell’arte greca è passata, ché l’angustia della nostra esistenza si è accresciuta per effetto della nostra complicata vita e sociale e politica, per cui l’animo, legato a meschini interessi utilitari, ha perduto la libertà e spregiudicatezza necessarie per vivere nel disinteressato godimento dell’arte», in C. Antoni, Scritti di estetica, cit., pp. 145-146.

[2] La tesi fondata su un «silenzio» immaginato, per l’appunto, come quel «pensiero preparatorio» che solleciterebbe i soggetti parlanti «nell’istituire il futuro» è rinvenibile in B. Romano, Scienza giuridica senza giurista: il nichilismo ‘perfetto’. Trenta tesi per una filosofia del diritto, Giappichelli Ed., Torino 2006, p. 36.

[3] I. Prigogine-I. Stengers, La nuova alleanza. Metamorfosi della scienza, Einaudi, Torino 1993.

[4] A. Capitini, Religione aperta, pref. di Goffredo Fofi, introd. e a cura di Mario Martini, Laterza, Roma-Bari 2011, p. 98.

[5] C. Antoni, Scritti di estetica, cit., p. 39.

[6] Antoni, al pari di un altro allievo di Croce, Manlio Ciardo, sostiene che Schiller sarebbe riuscito a superare Kant e la sua «sintesi» ancora legata al pensiero della fisica classica, individuando, a proposito dell’arte, «il trapasso dalla sensazione passiva all’attiva intuizione», C. Antoni, Dalla poesia alla storia, in Il tempo e le idee, cit., pp. 464-465.

[7] E. Severino, La filosofia dai greci al nostro tempo. La filosofia contemporanea, Rizzoli, Milano 2015, p. 25.

[8] B. Romano, Sulla trasformazione della terzietà giuridica. Sette domande al giurista e al filosofo, Giappichelli Ed., Torino 2006, p. 31.

[9] J-L. Nancy, L’esperienza della libertà, introd. di Roberto Esposito, Einaudi, Torino 2000, pp. 69-70.

[10] Il quale, però, avverte il pericolo anti-estetico già presente ai suoi tempi, seppure non grave come oggi, pronunciandosi in questi termini: «nell’atmosfera che così si è addensata e in cui si vive immersi, pesante, afosa e penosa agli spiriti liberi, agli intelletti alacri, alle anime delicate: quale sollievo apporterebbe, quale ampiezza di respiro, quale nuova lietezza, una fresca corrente di poesia che, percorrendola tutta e ravvivando il sentimento dell’eterno dramma umano, delle miserie e delle grandezze dell’umanità, ristabilisse le vere proporzioni delle cose nei loro rapporti reciproci e nella loro gerarchia e armonia, facesse riamare l’amore e la bontà, rieccitasse il disdegno per ciò che è turpe, vile e volgare», in B. Croce, Ultimi saggi, cit., p. 66.

[11] B. Croce, La Poesia, Adelphi, Milano 1994, p. 29.

[12] F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano 2005, p. 25.

[13] Antoni, rifacendosi all’interpretazione di Heinz Heimsoeth, scrive che il concetto dell’arte, in Nietzsche, è quello della «tempestosa creazione»; ovvero un concetto dal rilievo «romantico» che egli estende «all’intera vita dello spirito, come volontà di libera espansione, espressione plasmatrice, attuazione e superamento di sé. Qui il termine di potenza acquista il significato di una categoria dello spirito: è esuberanza spirituale», C. Antoni, Considerazioni su Hegel e Marx, Ricciardi Editore, Napoli 1946, pp. 154-155.

[14] Cfr. N. Bobbio, La filosofia del decadentismo, Chiantore, Torino 1944.

[15] Martin Heidegger sostiene che la chiacchiera consiste nella «possibilità di capire tutto senza preliminare appropriazione della cosa: essa protegge infatti dal pericolo di fallire in tale appropriazione. La chiacchiera, che chiunque può captare, non soltanto dispensa dal compito di una genuina comprensione, ma crea una comprensibilità indifferente cui nulla più si sottrae», M. Heidegger, Essere e tempo, Mondadori, Milano 2015, p. 243.

[16] C. Antoni, L’esistenzialismo di M. Heidegger, Guida Ed., Napoli 1972, p. 100.

[17] Si pensi alla svolta teoretica dell’idealista, o meglio del neoidealista Guido de Ruggiero, il quale accusa Croce di aver reso statico lo spirito, facendo venire meno – nella prospettiva dello «storicismo assoluto» − il necessario processo di spiritualizzazione del reale; si rinvia all’interpretazione di G. Sasso, Sulla filosofia di Guido de Ruggiero, in Filosofia e idealismo. De Ruggiero, Calogero, Scaravelli, vol. III, Bibliopolis, Napoli 1997.

[18] Paolo Pellegrino ricorda come in Croce la differenza fra espressioni artistiche ed espressioni pratiche o comuni, sia di ordine quantitativo, in P. Pellegrino, L’estetica del neoidealismo italiano, Congedo, Lecce 1996, p. 28. Tuttavia, bisogna precisare che Croce specifica che la differenza non è intensiva, ma estensiva, in B. Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, cit., pp. 16-17.

[19] G. Calogero, Etica Giuridica Politica, Einaudi, Torino 1948, p. 334.

[20] C. Antoni, Il tempo e le idee, cit., pp. 493-494.

[21] C.L. ragghianti, Tempo sul tempo (1967), in Id., Arti della visione III. Il linguaggio artistico, Einaudi, Torino 1979, p. 138. Una bella ricostruzione del pensiero di questo autore è rinvenibile in V. Martorano, Percorsi della visione. Ragghianti e l’estetica del cinema, Franco Angeli, Milano 2011. In cui si può leggere che proprio nel reinserimento della «tecnica pragmatica nell’ambito della complessa attività artistica», «si consuma il “dissidio” tra Ragghianti e Croce», Ivi, p. 12.

[22] B. Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Laterza, Bari 1973, p. 126.

(24 settembre 2016)


Viewing all articles
Browse latest Browse all 14